Caro D’Alema, forse è davvero giunto il momento di salutarsi
Quando entrai per la prima volta nell’ufficio del tuo capostaff, nella primavera del 1996, in vista del mio prossimo impiego come tuo addetto stampa, alla parete c’era un ritratto di Tony Blair con una sua frase che diceva più o meno così: “Chi prova a cambiare è sempre accusato di tradimento”
Caro
D’Alema, forse è davvero giunto il momento di salutarsi e prendere
congedo; forse la storia politica del Pci e la sua ventennale eredità
si sono infine consumate. Non sono fra quelli che ti considerano
«bollito», anzi: non
esistono oggi a sinistra personalità forti come la tua. A parte
naturalmente Matteo Renzi,
di cui però parleremo più avanti. Non partecipo al gioco ingeneroso
di chi vede nelle tue parole soltanto il rancore dello sconfitto, né
mi convince l’argomento vagamente stalinista secondo cui chi
dissente lavora per il nemico (sebbene ciò possa accadere
indipendentemente dalle intenzioni). Sei un uomo di forti passioni,
nonostante un’agiografia dominante che ti dipinge algido e
calcolatore, e la passione più forte di tutte è la politica.
Le
parole che hai detto al Corriere della Sera, e che hai poi ripetuto
davanti alle telecamere, sono molto impegnative perché segnano, dopo
mesi di progressive prese di distanza, un punto di non ritorno: un
congedo, appunto. «A
destra – hai detto – viene riconosciuto a Renzi il merito di aver
distrutto quel che restava della cultura comunista e del
cattolicesimo democratico. Ma così ha reciso una parte fondamentale
delle radici del Pd. Ha soffocato lo spirito dell’Ulivo», al punto
che Renzi è «oggettivamente» più vicino a Berlusconi che a Prodi:
«La cultura di questo nuovo Pd è totalmente estranea a quella
originaria».
Il partito, hai proseguito, «è finito in mano a un gruppetto di persone arroganti e autoreferenziali», «un gruppo di persone che ha preso il controllo del Paese, alleandosi con la vecchia classe politica della destra» per «sbarazzarsi del centrosinistra» («il partito della Nazione è già fatto»). E, come se non bastasse, «tutti quelli che non si allineano vengono brutalmente spinti fuori».
Il partito, hai proseguito, «è finito in mano a un gruppetto di persone arroganti e autoreferenziali», «un gruppo di persone che ha preso il controllo del Paese, alleandosi con la vecchia classe politica della destra» per «sbarazzarsi del centrosinistra» («il partito della Nazione è già fatto»). E, come se non bastasse, «tutti quelli che non si allineano vengono brutalmente spinti fuori».
Quando
entrai per la prima volta nell’ufficio del tuo capostaff al secondo
piano di Botteghe Oscure, nella primavera del 1996, in vista del mio
prossimo impiego come tuo addetto stampa, alla parete c’era un
ritratto di Tony Blair con una sua frase che diceva più o meno così:
«Chi
prova a cambiare è sempre accusato di tradimento».
La sinistra si apprestava a vincere per la prima volta le elezioni e
tu avevi appena pubblicato un libro intitolato, programmaticamente,
“Un
paese normale”.
Un paio d’anni dopo ne avresti scritto un altro, con l’aiuto di
Gianni Cuperlo: “La grande occasione: L’Italia verso le riforme”.
La
mission, come si direbbe oggi, era complessa ma, anche,
incredibilmente semplice:modernizzare
la sinistra era la premessa per modernizzare l’Italia e
battere – sul terreno dell’innovazione – l’offerta
berlusconiana. Bisognava dunque essere (come Blair) «più liberali»
di Forza Italia: aprirsi alle professioni, al merito, alla
creatività, all’individualismo, e insomma ad un’idea moderna e
dinamica di libertà civile, politica ed economica. Qui hai giocato
la partita politica della tua vita: contro
tutti i conservatori.
Contro i conservatori del sindacato, contro la magistratura
militante, contro le burocrazie e le caste, contro chi a sinistra ti
accusava di tradimento per aver fatto con Berlusconi un accordo che
finalmente riformasse la Costituzione, contro i custodi della
tradizione, e naturalmente anche contro il conservatorismo
dell’Ulivo.
Sei
stato fatto a pezzi per quella tua giusta, sacrosanta battaglia di
modernità.
La «rottura sentimentale» che in un’altra intervista (sempre
all’ottimo Aldo Cazzullo) rimproveravi a Renzi è davvero la chiave
per comprendere ciò che sta accadendo a sinistra: salvo che si è
già consumata da tempo, e precisamente da quando tu, con lucidità
politica e coraggio personale, hai tentato invano di
modernizzare la sinistra italiana (post)comunista. Anche tu sei stato
accusato – più o meno dagli stessi che oggi combattono Renzi –
di tradimento e resa all’avversario. E quando hai provato a
rimediare – perché ti sentivi non il liquidatore, ma il garante
della sinistra – ti hanno eliminato senza troppi complimenti nel
generale sollievo di tutti i conservatori.
È
questo il dramma – sentimentale, cioè politico – della sinistra:
è su questa ferita non rimarginabile, che tu da allora e ancor oggi
tenti invano di rimarginare, che si è consumatal’implosione
definitiva della tradizione (post)comunista.
L’amara verità è che da quella tradizione non poteva più venire
pressoché nulla di politicamente fertile: e lo dimostra proprio la
tua ritirata strategica, il ripiegamento obbligato dell’unico che
avrebbe potuto salvarla. Renzi nasce in questo vuoto, e vince con
sorprendente rapidità perché intorno a lui non c’è più niente
di vivo. E’ vero: non gli manca, come dici, una certa arroganza
(anche qui, tutto sommato, niente di nuovo), ma quel tono c’entra
molto con la politica e molto poco, invece, con il carattere. La
nuova sinistra di Renzi – e di D’Alema negli anni Novanta, e di
Craxi negli anni Ottanta – è impaziente perché la vecchia
sinistra è già tramontata ma non riesce ad ammetterlo. L’errore
di questi vent’anni – l’unico errore politico che mi sento di
rimproverarti – è aver cercato di farle convivere.
Di
Fabrizio Rondolino per L' Unità.TV
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