30 giu 2016

Banche: l'Ue dà ragione all'Italia

Banche: l'Ue dà ragione all'Italia

Garanzia pubblica per supporto valida in tutto 2016. Wsj, programma da 150 mld
La commissione europea ha dato domenica il via libera a un piano di sostegno pubblico alle banche italiane, da attivare da parte del Governo se necessario per fronteggiare eventuali turbolenze dei mercati. Emerge da una nota della commissione. Si tratta, secondo il Wall Street Journal, di una garanzia statale su 150 miliardi di liquidità per creare un programma preventivo di supporto alle banche, da attivare nel solo 2016 e per gli istituti solvibili, che rispetta le "regole sugli aiuti di Stato" in situazioni "eccezionali".
da ANSA.IT Redazione


29 giu 2016

Dove non arriva la rottamazione, arriva il M5S

Dove non arriva la
 rottamazione,
 arriva il M5S

Quando il Pd si chiude, gli elettori si allontanano. E ora hanno trovato un’alternativa
La sconfitta elettorale alle amministrative ha decretato una considerazione ineccepibile: la rottamazione a livello locale non è mai iniziata. Abbiamo assistito ad un partito che a livello locale risulta in molte zone inesistente, dove a decidere tutto sono poche persone.


L’errore che è stato commesso fino a questo momento è stato quello di voler vincere a tutti i costi, inglobando all’interno anche chi con il rinnovamento non aveva nulla a che fare e lasciando fuori dalle decisioni i militanti che più di tutti si sono sempre sacrificati per il partito. Molti per questo motivo si sono allontanati.


Rispetto agli anni passati, ora chi ha voglia di mettersi in gioco, vedendo il partito locale chiuso, arroccato su se stesso, ha un alternativa: il Movimento Cinquestelle. Ci sono tanti giovani e meno giovani, che non avrebbero nulla da invidiare a Raggi o ad Appendino, ma fino a questo momento sono rimasti isolati e messi in disparte dai potentati locali.


È da tempo che si lanciano messaggi a Matteo Renzi in merito alla situazione dei territori. Fino ad ora il grido di allarme non era stato ascoltato, ora dopo questa pesante sconfitta alle elezioni amministrative, più che con il lanciafiamme dovrebbe intervenire con la ruspa. Non c’è più tempo per rimandare la rottamazione anche a livello locale: o si interviene adesso o è a rischio anche il referendum di ottobre, con conseguenze su tutto il governo e sulla tenuta del Paese oltre che, ovviamente, del Partito democratico.


Matteo è il momento di intervenire, Adesso!
di Francesco Pepiciello per L' Unità.TV


Travaglio rimandato a settembre: di leggi elettorali non capisce nulla

Travaglio rimandato a settembre: 
di leggi elettorali non capisce nulla

La sua requisitoria contro l’Italicum è piena di sciocchezze e contraddizioni. La sufficienza è ancora lontana
L’Italicum non è sottoposto a referendum, ma è parte essenziale delle riforme volute dal governo. Insieme stanno, e insieme cadrebbero. È dunque ragionevole che, in vista del voto di ottobre, si discuta anche di legge elettorale. Ma bisognerebbe farlo con un briciolo di serietà, senza lasciarsi trascinare dalla rabbia e, soprattutto, sforzandosi di non imbrogliare gli elettori. Del resto, le leggi elettorali servono se funzionano, e funzionano se producono maggioranze e governi stabili: non sono cioè un capriccio del leader di turno, e dunque vanno (andrebbero) giudicate nel merito, non a seconda di chi le propone.


Purtroppo per i lettori del Fatto, la strada imboccata da Marco Travaglio va nella direzione opposta: quella dell’insulto e della scomunica. Definire Stefano Ceccanti “costituzionalista de noantri” può far sorridere il tifoso, ma non aiuta chi vorrebbe ragionare. Purtroppo, da Travaglio è difficile aspettarsi di più: anche perché il Nostro di sistemi elettorali capisce poco e nulla.


Oggi per esempio ha scritto che “i premi di maggioranza si chiamano così perché aiutano a governare chi ha la maggioranza, non chi è minoranza nel suo Paese”. Il che, evidentemente, è una sciocchezza sesquipedale: chi ha la maggioranza, come suggerisce la parola stessa, non ha bisogno di un premio di maggioranza, perché ce l’ha già; il premio è viceversa necessario per garantire la maggioranza assoluta dei seggi a chi ha conquistato la maggioranza relativa dei voti (e dunque è “minoranza nel suo Paese”).


Nella sua sgangherata requisitoria, Travaglio prima accusa l’Italicum di consentire al “partito vincente” di “intascarsi la maggioranza per governare da solo anche se vale un’infima minoranza del Paese”; poi, con un’elegante piroetta, si lamenta perché i 24 seggi assegnati dall’Italicum come premio di maggioranza “sono pochi per garantire stabilità assoluta”, perché “se 24 deputati lasciano il partito o si mettono di traverso, il governo va a casa” (dunque il premio va aumentato? O magari bisogna far firmare agli eletti il regolamento della Casaleggio Associati srl che infligge una multa di 250mila euro a chi dissente?).


Non pago, Travaglio si lancia nella difesa della “complessità dell’elettorato” e poi, senza neppure accorgersene, si lamenta perché l’Italicum consente la formazione di “listoni artificiali e artificiosi con tutti dentro” (ma non aveva appena parlato di partito unico?). Insomma, siamo ancora lontani dalla sufficienza. Fortunatamente prima del referendum c’è l’estate, e speriamo che Travaglio la sfrutti per studiare almeno i fondamentali.
Fabrizio Rondolino per L' Unità.TV


28 giu 2016

Bill Evans - At Shelly's Manne-Hole (1963 Album)


Autostrade elettriche, tir come filobus in Svezia

Autostrade elettriche, tir
 come filobus in Svezia

Avviata sperimentazione su tratto di 22 km
Tir come filobus, che corrono in autostrada con un motore elettrico, alimentato dai cavi sopra la carreggiata tramite un pantografo. L'"autostrada elettrica" ("eHighway") è un esperimento che è stato avviato nei giorni scorsi in Svezia, su di un tratto di 22 km fra la città di Gavle e la capitale norvegese di Oslo. La sperimentazione andrà avanti per due anni, e rientra nell'obiettivo del governo svedese di eliminare del tutto i combustibili fossili dal settore trasporti entro il 2030. Il pantografo dei tir è programmato per collegarsi al cavo sopra la carreggiata quando il mezzo supera i 90 km all'ora. Fuori dall'autostrada, il mezzo può muoversi con il motore diesel. Gli ingegneri della Siemens hanno previsto la possibilità che i tir possano alimentarsi anche con batterie elettriche o gas naturale. Il progetto è stato sviluppato dal colosso tedesco Siemens (che lo ha illustrato sul suo sito) e utilizza due tir ibridi della Scania, attrezzati con pantografo.


I trasporti producono un terzo delle emissioni svedesi di CO2, e metà di queste emissioni vengono dal comparto merci. Il governo di Stoccolma vuole capire se l'autostrada elettrica per i tir è una soluzione praticabile per ridurre l'inquinamento.


"La maggior parte dei beni trasportati in Svezia viaggiano sulle strade, ma solo una parte limitata di questi può essere movimentata per altre vie - ha spiegato il progettista capo della Amministrazione svedese dei trasporti, Anders Berndsson -.


Questa è la ragione per la quale dobbiamo liberare i i camion dalla loro dipendenza dai combustibili fossili. Le strade elettriche offrono questa possibilità e sono un eccellente complemento al sistema dei trasporti".
da ANSA.IT


Farage-M5S e gli altri: la strana accozzaglia del No alla risoluzione sulla Brexit

Farage-M5S e gli altri: la strana accozzaglia
 del No alla risoluzione sulla Brexit

Il Parlamento europeo vota la risoluzione sull’uscita del Regno Unito. Tra i 200 No anche quelli di Lega e Cinquestelle, sempre più legati al fronte anti-europeo
Nigel Farage, Marine Le Pen e con loro i rispettivi alleati di casa nostra: Cinquestelle e Lega. L’asse euroscettico che avrebbe dovuto festeggiare il successo del Leave al referendum britannico oggi ha invece votato No alla risoluzione del Parlamento europeo approvata con 395 Sì, 200 No e 71 astenuti, che chiede tempi rapidi per la Brexit, auspicando un avvio delle procedure già nel Consiglio europeo che parte oggi. Perché?


Gli oppositori italiani lamentano la bocciatura dei rispettivi emendamenti presentati in aula. Ma a leggere i testi, è difficile credere a questa motivazione. Quelli del gruppo dell’Europa della libertà e della democrazia diretta (Efdd), sottoscritti anche dal grillino Pedicini, contenevano correzioni poco più che formali, oltre a invitare il Consiglio europeo ad “adottare un mandato negoziale per la conclusione di un accordo con il Regno Unito”, provando così a estromettere dall’incarico di mediatore la Commissione europea, indicata invece esplicitamente nella risoluzione approvata. Più pittoreschi quelli del leghista Fontana (gruppo Enf), che chiedeva di inserire diciture quali “il progetto europeo è un drammatico fallimento” o “chiede le dimissioni del Presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, sulla base della sua inettitudine […]”, o di rallentare il procedimento di Brexit e di relativa riorganizzazione delle istituzioni comunitarie.


Al fronte del No si sono iscritti anche gli europarlamentari della Sinistra europea (da citare l’emendamento sottoscritto anche dall’italiana Spinelli, che chiedeva di “trovare un compromesso, mediante ogni accordo, affinché l’Irlanda del Nord possa restare membro dell’Ue”) e il gruppo dei Conservatori e riformisti, che comprende i Tories britannici ma anche l’italiano Raffaele Fitto.


Il risultato è quello di un’accozzaglia politicamente poco definita, intenzionata solo ad opporsi alla maggioranza che esprime la Commissione europea. E fin qui, è il gioco delle parti della politica. Un dato più rilevante è invece quello che vede il M5S rimanere saldamente a braccetto con Farage, nonostante in Italia gli stessi Cinquestelle neghino di condividerne la linea anti-europea, anche a costo di rallentare un processo voluto e votato dai cittadini britannici: se i loro partner inglesi possono avere interessi a trattare un’uscita dignitosa per evitare che il processo si ritorca contro loro stessi, perché il M5S a parole campione della democrazia diretta, nei fatti frena sugli effetti del referendum?
Rudy Francesco Calvo per L' Unità.TV


Tutti i vantaggi di uno spostamento della City da Londra a Milano

Tutti i vantaggi di uno spostamento
 della City da Londra a Milano

La città italiana presenta moltissimi vantaggi per ospitare il distretto bancario europeo
I “profughi” di Canary Warf valgono il 10% del Pil della Città Metropolitana. È questa la ricchezza che potrebbe essere trasferita da Londra a Milano nei prossimi 5 anni a seguito della Brexit.


Una stima che potrebbe rivelarsi addirittura prudenziale rispetto ai valori in gioco ma la cui cifra reale dipende dalla volontà politica del Governo italiano e dall’audacia e velocità dell’amministrazione comunale di Milano.


A giudicare dalla reazione di Beppe Sala dopo il referendum del 23 giugno le condizioni sembrano essere molto favorevoli. Il neo sindaco di Milano ha infatti dichiarato che “la posta in gioco riguarda la possibilità di attrarre a Milano istituzioni finanziarie che potrebbero migrare dalla City per servire meglio i loro clienti europei. Dobbiamo candidarci subito a ospitare l’Autorità bancaria europea (Eba)”.


Ma quale potrebbe essere l’impatto di uno spostamento della City di Londra a Milano? In base agli studi elaborati dalla società di consulenza PWC per conto del Comune di Londra nella primavera di quest’anno, la Brexit potrebbe costare una perdita complessiva di PIL, entro il 2020, tra 55 e 100 miliardi di sterline rispetto ai valori del 2015. Limitandosi al sole settore finanziario, la perdita di PIL sarebbe tra 7 e 12 miliardi di sterline. A questo si aggiunga che ammonta a 300 miliardi di euro, pari al 12% del Pil britannico, la ricchezza generata ogni anno dalla City mentre sono 360mila i dipendenti di società della filiera dell’industria finanziaria impiegati a Canary Warf, il distretto finanziario della città.


Per raggiungere questo obiettivo Milano dovrà tuttavia affrontare un’agguerrita concorrenza. A cominciare da Dublino, Paese anglofono a due passi da Londra che ha un’aggressiva agenzia nazionale per gli investimenti e un hub finanziario che esiste dagli anni ’80 soprattutto nel campo del risparmio gestito (hedge fund), del trading e dei servizi per la clientela retail (back office). Poi c’è Parigi dove è già presente un importante distretto finanziario.


Il Presidente dell’Ile-de- France, Valérie Pécresse, subito dopo la Brexit ha dichiarato di essere “pronta ad accogliere tutti coloro che vogliono tornare in Europa”. “Benvenuti nella Regione di Parigi – ha poi aggiunto – la nuova Londra”. Infine Francoforte la cui Borsa si è da poco apparentata con quella di Londra, e di cui fa parte anche Milano, il principale hub finanziario d’Europa fuori dal Regno Unito.


Ma quali sono i principali vantaggi che può mettere in campo Milano? Per prima cosa un’anima storicamente “mercantile” della città forte tanto quanto quella Londinese. Aggiungiamo una qualità della vita decisamente migliore e affitti molto più bassi. Pensiamo ad esempio che nei grattacieli di Canary Warf si paga sino a 1.200 euro al mq all’anno contro i 350-500 di Milano.


Per l’accoglienza delle società e dei manager provenienti dalla City c’è la disponibilità di importanti aree a due passi dal centro da trasformare (lo scalo di Porta Romana per esempio) o più periferiche, ma di grande qualità e accessibilità, come Area Expo e Cascina Merlata. Non trascuriamo infine la presenza di Università economiche, tra le prime in Europa, che possono alimentare di giovani talenti i desk delle società finanziarie.


Se Milano dovesse riuscire quindi a intercettare, entro il 2020, anche solo il 10% del PIL perso dal Londra si tratterebbe di una cifra tra 6 e 12 miliardi di euro, pari al 10% del Pil attuale della Città Metropolitana.


Probabilmente il più grande catalizzatore di crescita dai tempi del dopoguerra.
di Fabrizio Barini per l' Unità.TV


Google, le 5 sfide dell'intelligenza artificiale

Google, le 5 sfide 
dell'intelligenza artificiale

I ricercatori di Big G riflettono su 'cuore e mente" dei robot domestici
L 'INTELLIGENZA ARTIFICIALE che dipinge, compone musica e film, batte l'uomo alla Dama cinese e impara a giocare a calcio. Programmi sempre più evoluti porteranno alla nascita di servizi fino a qualche tempo fa impensabili e saranno 'il cuore e la mente' dei futuri robot, anche quelli domestici che divideranno con l'uomo spazi e mansioni. I ricercatori si interrogano su possibili scenari e Google arriva ad ipotizzare cinque sfide da affrontare prima di aprire le porte all'Intelligenza artificiale (AI). Riflessioni che riportano alla memoria le tre leggi della robotica che Isaac Asimov definì nei suoi romanzi negli anni '40.


Secondo Chris Olah, numero uno della divisione Google Research, attualmente non si corre alcun rischio. Anzi, le tecnologie legate alla robotica e all'Intelligenza Artificiale porteranno notevoli benefici alla collettività. Uno sviluppo incontrollato, però, potrebbe portare ad una generazione di macchine potenzialmente pericolose per il genere umano.


Il documento messo a punto dall'azienda californiana s'intitola 'Concrete Problems in AI Safety' e pone al primo punto la necessità, prevedibile, di "evitare effetti collaterali negativi". Ma anche di evitare di far scattare nell'Intelligenza artificiale meccanismi di auto-gratificazione simili a quelli umani, che porterebbero alla ripetizione inutile di compiti; di creare processi decisionali 'scalabili' (quanto si fa decidere al robot e quanto input devono essere umani?); di permettere un'esplorazione sicura (come muoversi negli spazi e cosa non fare). E infine l'adattabilità: assicurarsi che quello che ha imparato l'AI limitatamente ad un ambiente, venga replicato con attenzione in un altro.


Il documento arriva a pochi giorni da uno studio condotto dall'Università di Oxford e da un'azienda di Google che si chiama Deep Mind: è arrivato ad ipotizzare un "pulsante rosso", di emergenza, in grado di spegnere un'Intelligenza artificiale fuori controllo, scenari immaginati dai film Terminator ed Ex Machina. Il dibattito si innesta in un momento di forti investimenti nel settore da parte della Silicon Valley, tanto che la rivista Nature ha puntato il dito su un monopolio a scapito dei centri universitari. Della partita è anche un visionario come Elon Musk, papà di Tesla e promotore di viaggi nello spazio: vuole costruire un robot per le faccende domestiche che sia alla portata di tutti, a lavorarci sarebbe il team di ricercatori non-profit Open AI, messo in piedi a dicembre.

Da Repubblica.it

27 giu 2016

Renzi su D' Alema ....


Il Sud torna a crescere dopo 7 anni

Il Sud torna a crescere dopo 7 anni

Risultato molto positivo per l’agricoltura, ma crescono anche i comparti del commercio, dei trasporti e delle costruzioni
Con una crescita dell’1%, il Mezzogiorno nel 2015 registra il primo recupero del Pil dopo sette anni di cali ininterrotti. Una notizia incoraggiante che arriva in un momento di grande incertezza economico-finanziaria, soprattutto se si guarda sul fronte lavoro dove il recupero in termini di occupazione è più che doppio rispetto alla media nazionale. E’ quanto emerge dalla stima preliminare del Pil e dell’occupazione a livello territoriale diffusa oggi dall’Istat.


Come si spiegano questi dati? Secondo l’istituto nazionale di statistica, la ripresa del Mezzogiorno ha risentito in positivo della “considerevole” crescita registrata dal valore aggiunto nel comparto agricolo (+7,3%), ma “incrementi di un certo rilievo si osservano anche in quello del commercio, pubblici esercizi, trasporti, telecomunicazioni (+2,6%) e nelle costruzioni (+1,4%)”. L’industria in senso stretto segna invece, sottolinea l’Istituto, “una variazione quasi nulla, mentre il settore dei servizi finanziari, immobiliari e professionali è l’unico a presentare un calo (-0,6%)”.


Per il ministro del Lavoro Giuliano Poletti si tratta di dati “che infondono speranza e che vogliamo consolidare con le riforme. È una conferma che nel 2015 l’economia e l’occupazione hanno ripreso a crescere dopo lunghi anni di crisi“.


Per quanto riguarda le altre aree, il Pil è cresciuto dell’1% nel Nord-Ovest e in linea con il dato nazionale nel Nord-Est, trainato in entrambe le aree dall’industria in senso stretto, e dello 0,2% nel Centro.


Esprime soddisfazione anche il presidente dei deputati del Partito democratico, Ettore Rosato, che parla di “inversione di rotta” per il Mezzogiorno. “Dietro questi numeri – sottolinea su Facebook – c’è una speranza per il futuro del Sud e dell’Italia”.




Mentre l’esponente della segreteria nazionale del Pd Ernesto Carbone pone l’accento sull’efficacia delle riforme del governo: “il Jobs act per primo e più in generale le misure destinate dall’esecutivo al Mezzogiorno. Significa che la ripresa del Paese – continua il deputato dem – non solo interessa anche il Sud ma che passa proprio dal Sud”.
da L' Unità.TV


26 giu 2016

Volare o dissolversi.........di Walter Veltroni

Volare o dissolversi

O si fanno gli Stati Uniti d’Europa o sarà presto la fine del più grande progetto di pace e di integrazione del novecento
E ora? Il panico nelle borse non è inferiore a quello che, in verità, si è diffuso nelle cancellerie europee. Ma davvero nessuno si aspettava l’esito che noi avevamo previsto tre settimane fa? Davvero in Europa abbiamo uomini di stato e di finanza talmente lontani dal sentire delle loro opinioni pubbliche da credere a quel moderno elefante che vola che sono i sondaggi?


Ora è davvero un disastro. Lo è psicologicamente, perché l’idea di un’Europa senza la Gran Bretagna è difficile da accettare. Lo è economicamente, finanziariamente, socialmente perché i contraccolpi saranno forti e duri e accentueranno povertà estreme.


Lo è politicamente, non solo per la sconfitta congiunta dei leader conservatori, laburisti, liberali, ma per l’effetto di contagio che il prevalere degli anti europei può avere sull’intero continente. Dalla Danimarca alla Francia, dalla Polonia all’Austria il nuovo che avanza sembra un estratto dai peggiori ricordi del novecento: il nazionalismo, l’isolazionismo, la paura dell’altro, la xenofobia.


Cosa stia succedendo nel profondo delle coscienze di popolazioni spaventate dalla crisi abbiamo cercato di descriverlo persino in modo ossessivo da un anno a questa parte. C’è un passaggio d’epoca, pericoloso come lo sono le transizioni, i grandi rivolgimenti. In Europa finisce, temo saranno le elezioni spagnole di oggi a confermarlo, quel bipolarismo tra cattolici e popolari che ha segnato la storia di gran parte del nostro continente dal dopoguerra ad oggi.


Nascono forze nuove che si collocano in zone estreme del paesaggio politico, radicalità prevalentemente di destra, oppure in aree indistinte, con una bandiera cangiante, veloci nel muoversi in una società che non ricorda nulla, che non è capace di chiedere allo stesso leader: «Mi scusi, lei fino al mese scorso era per l’uscita dall’Euro e ora invece vuole restare. Come mai?». O viceversa. Il panorama politico è del tutto originale e per chi, come me, continua a pensare che destra e sinistra siano sempre separate da valori e programmi e che non esista un indistinto, resta il compito difficile e affascinante di immaginare la propria visione del mondo in un paesaggio nuovo. Non si va nell’inverno con il costume da bagno.


Tutto è cambiato, non capirlo significa contribuire al peggio. È cambiato nella organizzazione produttiva, nelle gerarchie sociali, nel modo di sapere e di comunicare, nel rapporto tra cittadini e potere, tra cittadini e istituzioni. C’è un tale disagio, una tale sensazione diffusa di non avere certezze e di camminare ogni giorno sull’acqua, che chiunque abbia qualsiasi potere è individuato, spesso a prescindere dalle sue responsabilità, come il bersaglio da colpire, l’ostacolo da rimuovere.


In attesa di bersagliare il prossimo orso che passa, come al luna park. Cosa fare? Ci torneremo, con lo sguardo libero dagli inevitabili condizionamenti che la partecipazione personale e attiva alle cose della politica e del potere può avere. Da lontano, fisicamente, e da vicino, col cuore, forse si vede più nitidamente. Lo spero e ne parleremo.


Per ora, per queste ore drammatiche che non avremmo mai voluto vivere, so due cose. Una per l’Europa e una per l’Italia. La prima è che, ad horas, l’Europa deve dimostrare essere viva e di essere all’altezza della sua nuova condizione. O volerà o precipiterà, non si va avanti in stallo. Il risultato inglese è nato anche nei vertici ripetuti e inconcludenti, nelle politiche di austerità sorde alla condizione di disperazione sociale di vasti strati di popolazione, nelle burocrazie occhiute, nelle furbizie quando, come nel caso dei migranti, bisogna assumersi congiuntamente responsabilità difficili. Nasce dal deficit di messaggi di opportunità, di equità, di innovazione che il più grande sogno di generazioni è stato capace di generare dopo l’euro e Schengen.


Lo ripeto, come feci mesi fa: o gli Stati Uniti d’Europa o sarà presto la fine del più grande progetto di pace e di integrazione del novecento. Un progetto nato sulle ceneri fumanti dei bombardamenti e sognato da chi era al confine o nei lager. Perché la guerra gli europei se la sono fatta, più volte. Non dimentichiamolo mai.


Per l’Italia il mio sommesso invito è di comprendere bene quello che sta accadendo e di restare uniti. Il nostro è uno dei pochi governi riformisti sopravvissuti in Europa e tra i più sinceramente impegnati per nuovi livelli di integrazione comunitaria. La sua forza, oggi, è necessaria per evitare il rischio di una dissoluzione. Dunque sostegno al governo, in questo momento drammatico, e da parte di chi ha oggi le massime responsabilità lo sforzo di aprirsi. Lo sforzo di cercare, anche per evitare un esito negativo del referendum, le soluzioni di sistema capaci di assicurare che il governo futuro sia scelto dai cittadini, sia stabile e che, insieme, si eviti il rischio che, nel combinato della riforma elettorale e di quella istituzionale, il quadro sia privo dell’equilibrio necessario.


Oggi per nessuno è tempo di divisioni, di manovre, di chiusure pregiudiziali. E’ il tempo in cui la politica deve mostrare saggezza e misura. Deve rendere chiaro che ciò di cui si occupa non è il destino di singoli ma quello di una intera comunità , di un paese che oggi osserva con rabbia e smarrimento questo tempo inedito e carico, ora, più di pericoli che di opportunità.


Un’ultima cosa: c’è solo un segno positivo, nel grande caos. Il voto dei giovani inglesi e gli appelli che ora circolano in rete perché non si arresti il processo di integrazione. Oltre il tunnel, c’è la luce.
di Walter Veltroni per L' Unità.TV


25 giu 2016

Le 5 bugie che hanno convinto gli inglesi

Le 5 bugie che hanno convinto gli inglesi

Il sito infacts.org ha raccolto i 5 miti da sfatare che sono stati diffusi per convincere il popolo britannico a votare per il Leave
La campagna per la Brexit è stata costellata da informazioni fuorvianti. “I sostenitori della Brexit hanno condotto una campagna di disinformazione per spaventare gli elettori e indurli a votare in favore dell’uscita della Gran Bretagna dall’Ue” spiega il sito il sito infacts.org che ha raccolto i 5 miti da sfatare che sono stati diffusi per convincere il popolo britannico a votare per il Leave. Il sito apertamente schierato contro la Brexit ha realizzato anche dei video sulle tesi più strampalate diffuse dalla stampa inglese o evocate nei discorsi dei leader.


Dall’esistenza di un milione e mezzo di immigrati clandestini al collasso in tre anni dei conti del servizio sanitario nazionale. Dal fatto che il ripristino di controlli nazionali aumenterebbe di dieci volte la possibilità di fermare sospetti terroristi, allo spettro di settecento reati settimanali commessi da immigrati comunitari.



1) “La Turchia diventerà membro dell’Ue nel 2020” Michael Gove, Lord Cancelliere e segretario di Stato della Giustizia del Regno Unito, nonché acceso sostenitore della Brexit, ha detto che la Turchia sta per entrare nell’Ue. Il politico conservatore però evita di ricordare che, per ottenere il via libera di Bruxelles, Ankara dovrà dimostrare di essere una moderna democrazia europea sotto ogni profilo, dai diritti umani all’economia. E se anche ci riuscisse – una prospettiva ad oggi inverosimile –, la Gran Bretagna o qualsiasi altro membro dell’Unione potrebbe opporsi all’ingresso dei turchi, esercitando il diritto di veto.


2) “Siamo sempre messi in minoranza da Bruxelles” Per suscitare una sorta di rivalsa nazionalista, il fronte del “Leave” afferma che nelle votazioni in sede europea la Gran Bretagna si trova spesso in minoranza. In realtà dal 1999 a oggi il bilancio del Regno Unito nelle votazioni del Consiglio europeo farebbe impallidire qualsiasi campione dello sport: 56 sconfitte contro 2.466 vittorie.


3) “La UE ha bisogno di noi più di quanto noi abbiamo bisogno di loro”. Boris Johnson sostiene che, una volta abbandonata l’Ue, la Gran Bretagna potrebbe ottenere un buon accordo commerciale con Bruxelles: “La Germania vuole continuare a venderci le BMW”, argomenta l’ex sindaco di Londra. Quello che Johnson non dice è che le esportazioni britanniche nell’Ue rappresentano il 13% dell’economia nazionale, mentre l’export dell’Unione nel Regno Unito vale appena il 3% dell’economia comunitaria. Per cui in una eventuale guerra commerciale, la Gran Bretagna ha molto più da perdere dell’Unione europea. Inoltre, diverse multinazionali (come Nissan) hanno istituito il loro quartier generale europeo nell’UK perché ritengono che sia la miglior porta d’accesso al mercato continentale. In caso di Brexit, Germania e Francia potrebbero cercare di sottrarre questa prerogativa al Regno Unito.


4) “Ogni settimana la Gran Bretagna invia a Bruxelles ben 350 milioni di sterline”. Secondo l’ex sindaco di Londra ogni settimana la Gran Bretagna invia a Bruxelles ben 350 milioni di sterline. Non è così, dal momento che il Regno Unito beneficia ancora del cospicuo sconto sui pagamenti all’Ue contrattato nel 1984 da Margaret Thatcher. È curioso che Johnson, grande fan della Thatcher, non ricordi questo particolare. Se si considera lo sconto tatcheriano e il denaro che dall’Unione europea torna nelle casse britanniche, la permanenza nell’Unione costa a ogni cittadino 30 centesimi di sterlina al giorno. Ma i vantaggi di cui tutti beneficiano valgono molto di più.


5) “Lasciare la Ue per salvare il Sistema Sanitario”.
Boris Johnson e Michael Gove affermano che la Gran Bretagna potrebbe salvare il proprio sistema sanitario uscendo dall’Unione europea, perché ridurrebbe il numero d’immigrati in arrivo ogni anno e interromperebbe l’emorragia di denaro destinato a Bruxelles. Gli stessi politici, tuttavia, dimenticano sempre di far notare che, in caso di uscita dall’Ue, il Regno Unito perderebbe il proprio accesso preferenziale al mercato europeo, cui è legata circa la metà del commercio britannico. Ciò provocherebbe uno shock economico talmente grave che il Paese non si ritroverebbe affatto con più denaro da spendere: al contrario, le risorse a disposizione diminuirebbero drasticamente. Boris Johnson e Michael Gove, inoltre, non dicono che i migranti comunitari, non danneggiano il sistema sanitario, ma lo sostengono, perché pagano più tasse di quanto non sfruttino i servizi pubblici, essendo più giovani della media dei britannici. Inoltre, nel Regno Unito un medico su 10 è un immigrato comunitario.
da L' Unità.TV


22 giu 2016

I consigli del Fatto alle sindache M5S: non fate nulla

I consigli del Fatto alle 
sindache M5S: non fate nulla
Sei giornalisti del quotidiano diretto da Travaglio dicono la loro e il quadro che ne esce è di grande interesse
Smaltito lo choc delle amministrative – c’è vita anche dopo, ve l’assicuro – il Fattone torna alla sua grigia routine quotidiana e incappa in un’interessante paginata di “consigli alle sindache M5S” allestita dal Fatto per le nuove reginette della politica italiana. Sei consiglieri sei dicono la loro, e il quadro che ne esce è di grande interesse.


La linea, pur con qualche variazione di tono e di umore, è semplice quanto efficace: promettere poco (tanto la campagna elettorale è finita), fare il meno possibile, non montarsi la testa, limitarsi al minimo sindacale. “Vorrei – scrive per esempio Antonello Caporale – che Virginia Raggi fosse capace di indicare quel che sa fare e quel che non può e non riesce a fare”. E Maurizio Viroli, di rimando: “Il pericolo più insidioso sono le aspettative dei cittadini” (ma guarda un po’), i quali vanno dunque depistati. Come? Le reginette, suggerisce Viroli, devono “stare attentissime a non promettere che saranno in grado di risolvere rapidamente i problemi” e devono invece impegnarsi a “denunciare le responsabilità delle precedenti amministrazioni”. Un po’ poco per un piano quinquennale, ma pazienza.


Lucidissima Luisella Costamagna, che consiglia alla Raggi di “partire dai fondamentali: trasporti, buche, monnezza…”. E vabbè. Il professor Gianfranco Pasquino, siccome è un professore, va più sul tecnico: “La Raggi dovrebbe chiedere ai direttori dei vari dipartimenti del Comune di redigere una pagella sull’affidabilità, la capacità e la competenza di chi lavora in quello specifico dipartimento”. E come no.


Vasto anche il programma suggerito da Stefano Disegni: “Santa Virginia, liberaci dai posteggiatori abusivi”, mentre l’uomo che vorrebbe essere Travaglio si concentra su Torino, “meno complicata” di Roma, dove sarà finalmente possibile “dimostrare di saper governare in una grande città”: che è un po’ come dire che i grillini possono far bella figura soltanto dove la sinistra ha ben governato prima di loro.


Il minimalismo del Fatto segnala una fondata diffidenza verso il partito di Grillo, e democristianamente gli consiglia la più italiana delle soluzioni: non far nulla. Mah.
di Fabrizio Rondolino per L' Unità.TV


21 giu 2016

Bersani: “Il Pd deve recuperare l’anima”

Bersani: “Il Pd deve recuperare l’anima”

L’ex segretario dem: “Se vince il No Renzi non si 
deve dimettere”
Continua l’analisi del voto amministrativo e continuano le polemiche all’interno del Pd. Le sconfitte di Roma e Torino a favore del MoVimento 5 Stelle hanno prodotto una serie di riflessioni all’interno del Partito Democratico, con la minoranza interna che chiede a Matteo Renzi un cambio di passo.


Oggi è l’ex segretari Pier Luigi Bersani a parlare, lo fa con una lunga intervista al Corriere e partecipando alla trasmissione di Rai 3 Agorà. Per Bersani si deve “recuperare l’anima del Pd”, perché queste elezioni hanno dimostrato che “la destra non ci vota”. Secondo l’ex segretario, “senza un Pd di sinistra non si può governare il Paese e il nostro, oggi, è un Pd che si deve correggere, perché l’Italia ha bisogno del Pd, il centrosinistra ha bisogno del Pd”.


Sul Corriere Bersani analizzando il voto critica la scelta isolazionista del Pd: “Non è un caso se vinciamo dove teniamo, anche se in modo precario, un certo campo di centrosinistra” e si domanda: “Sala avrebbe mai vinto a Milano se non ci fosse stato, seppur lieve, un respiro dell’Ulivo?”.


Anche su referendum e Italicum l’ex segretario chiede delle correzioni. Sul referendum Bersani annuncia che voterà sì perché “voglio guardarmi allo specchio, in Parlamento ho votato sì, quindi voterò sì“, però avvisa che non condivide il modo in cui si sta conducendo la campagna e che se continuerà così “non mi vedranno a fare propaganda per il sì, non mi vedranno ai banchetti. Ci ricordiamo come è stata fatta questa Costituzione? Ci ricordiamo che ci fu un ben altro cambio di governo, buttarono fuori i Comunisti dopo il viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti? Ma si andò avanti a fare la Costituzione. Se la interpreti in altro modo, che ogni governo si fa la sua Costituzione, magari con un Parlamento che puoi comandare a bacchetta perché l’hai fatto eleggere tu, l’hai nominato tu, stiamo entrando in un altro sistema. Renzi non deve mettere in gioco se stesso, non l’ha fatto De Gasperi“.


Ma è sulla modifica dell’Italicum che Bersani insiste: “Io non l’ho votato. Tutte le proposte che pretendono di semplificare all’eccesso il sistema attorno a poche figure favoriscono la piega demagogica e regressiva. Essere inclusivi, dandosi istituzioni e meccanismi elettorali che abbiano gradi di flessibilità e non di rigidità. Semplificare è pericoloso, l’ltalicum va cambiato“.
di Francesco Gerace per L'Unità.TV
Il Buon Bersani consiglia a Renzi di non 
   dimettersi  perché  ( perderebbe la
 poltrona  alla prima votazione ) Parla di anima ?
 quale anima quella "delli mortacci sua ???" Ha
 atteso i risultati per uscire fuori e dire il NULLA  L' 
Italicum non lo ha votato semplicemente perché 
non da assicurazioni alla sua sedia ....sotto elezioni
 ci ricordiamo tutti sia il suo remare contro, la sua 
eterna polemica su qualsiasi cosa proponesse il 
governo Renzi.....Perciò è giunta l' ora di dare il 
benservito a lui ed ai suoi tira piedi il PD non ha 
bisogno di omuncoli del genere...altro che Ulivo  lui 
fa esattamente il contrario ..o sbaglio ?
Dino Monti


The Source: Smooth Jazz Radio (Top 20 - week of Feb 15-21, 2015)


20 giu 2016

La sconfitta più dura che azzera il Pd romano

La sconfitta più dura 

che azzera il Pd romano

L’impresa era di quelle impossibili: rimontare una sconfitta già scritta dalla caduta di Ignazio Marino
Inutile cercare scuse. Il risultato di Roma per il Pd è uno schiaffo violento. Neppure la sconfitta contro Alemanno nel 2008 era stata così dura. Virginia Raggi ha stravinto, schiantando il Pd, malgrado Roberto Giachetti abbia combattuto con straordinario coraggio. Che Roma fosse persa era una facile previsione e va dato atto al candidato democratico di aver accettato una sfida che avrebbe fatto tremare chiunque. La sconfitta brucia, è una ferita aperta nel corpo del Pd che Roberto Giachetti non è riuscito a sanare, malgrado un impegno generoso e serio.


L’impresa era di quelle impossibili: rimontare una sconfitta già scritta dalla caduta di Ignazio Marino. Malgrado il sindaco non c’entrasse nulla con Mafia Capitale, il coinvolgimento di numerosi esponenti del Pd nella melma romana ha costruito una narrazione devastante cui si è aggiunta la perdita di un rapporto con la città e l’incapacità di frenare un degrado che pesa sulla vita quotidiana dei romani . Il Pd è apparso come il principale responsabile di tutto questo e la vigorosa azione di rinnovamento intrapresa non è riuscita a convincere gli elettori. Per troppo tempo il partito democratico romano è stato percepito come un coacervo di microcorrenti e capi bastone interessati solo alla sopravvivenza dei loro spazi di potere.


E la giunta Marino non è stata in grado di creare un rapporto empatico con la sofferenza dei cittadini. Il modo in cui è caduta ha inoltre tracciato un solco tra i democratici. L’elettorato romano era assetato di discontinuità, senza guardare né alla qualità dei candidati, né all’idea che proponevano di Roma. Era il terreno perfetto per la rappresentazione di cui il M5S ha bisogno per crescere: da una parte loro, i puri, gli onesti, dall’altro la casta, una classe politica percepita dai cittadini distante dalla loro vita quotidiana, un’oligarchia che parla solo a sé stessa.


Un voto contro, che va rispettato e compreso, perché esprime un disagio reale, alimentato da una crisi economica che ha picchiato duro sulle periferie abbandonate e dal disincanto che colpisce i cosiddetti ceti medi riflessivi. E che riflette una tendenza non solo italiana. Non più una contrapposizione tra blocchi sociali e coalizioni politiche, ma una opposizione del basso verso l’alto. In questo senso il voto romano è un segnale d’allarme generale: il Pd è apparso non come la soluzione, ma il problema. Per tornare a interpretare il cambiamento, come era avvenuto nelle elezioni europee anche a Roma, servono un bagno di umiltà e una scossa nel partito. Il Pd a Roma deve rinascere, promuovendo energie nuove e non compromesse e reimmergendosi in una metropoli mai così divisa, incattivita, impaurita, segnata da diseguaglianze enormi.


Virginia Raggi ha stravinto e sarà legittimamente lei a guidare Roma. La logica del ballottaggio va accettata perché così funziona la democrazia, ma ad eleggerla è stato poco più di un terzo degli elettori. Segno che la maggioranza dei cittadini guarda con distacco al Palazzo del Campidoglio, nel quale ora la sindaca entra accompagnata dalle note di una marcia trionfale ma, finiti i festeggiamenti, dovrà fare i conti con problemi enormi.


Le confuse promesse della campagna elettorale dovranno ora misurarsi con la realtà dei fatti: un peso del debito che strozza le risorse disponibili, una macchina amministrativa mastodontica e incapace di attuare gli indirizzi politici della giunta, le aziende pubbliche prigioniere di patti scellerati con le corporazioni. Beppe Grillo aveva tuonato prefigurando interventi radicali, tali da sollevare la protesta degli interessi colpiti.


La Raggi, in campagna elettorale, li ha invece rassicurati. E ne ha tratto un grande vantaggio: sarà interessante vedere come farà a conciliare queste due cose. E poi ci sarebbero da cogliere occasioni di attrazione di investimenti, ma il nuovo sindaco ha detto no a tutto. Al nuovo stadio della Roma, come alle Olimpiadi. Nessun cittadino può tifare per il male della propria città, ma le prove fornite dai pentastellati dove governano sono deludenti. A Roma servirebbe una nuova classe dirigente non solo onesta, ma anche competente.


La Raggi potrebbe stupirci, ma temiamo che non sarà così. Se volesse farlo potrebbe fare una cosa semplice e chiara: disdettare il contratto sottoscritto con la ditta Casaleggio che affida a Grillo e a un fantomatico staff le principali scelte sia riguardo agli assessori che alle strategie di governo. Restiamo in fiduciosa attesa.
di Carmine Fotia per L' Unità.TV