L’ultimo
leninista
Il
brand resta forte, ma perde l’unica testa pensante
“Ad
un certo punto pensai di fare a meno di lui, e me ne sono pentito”:
Antonio Di Pietro, che di Gianroberto Casaleggio era anche uno degli
avvocati, ricorda l’amico scomparso con una punta di rammarico che
conferma e rafforza la fama del santone della Rete capace, con la sue
sole capacità di web marketing, di creare dal nulla un partito e
portarlo al trionfo elettorale. È tuttavia improbabile che l’Italia
dei valori avrebbe avuto lo stesso successo del M5s se avesse
continuato a giovarsi della collaborazione di Casaleggio; più
ragionevole credere che sia stato invece Casaleggio, dopo un primo
tentativo con Di Pietro, a cercarsi un altro avatar attraverso il
quale conquistare il potere: Beppe Grillo.
Entrambi
tuttavia – il magistrato che ha messo a nudo i delitti della Casta
e il comico che l’ha sbeffeggiata per trent’anni – hanno in
comune un tratto essenziale dell’ideologia casaleggiana: nel
partito moderno, che obbedisce scrupolosamente alle regole della
pubblicità e del marketing, il leader è sostituito dal testimonial,
il quale è chiamato a recitare un copione scritto da altri ed è in
grado di inverare, esclusivamente grazie alla propria biografia, il
programma di cui è portatore passivo. Non c’è alcun contenuto nel
M5s: e la grandezza di Casaleggio sta nell’aver capito per primo
che per la politica contemporanea il contenuto è soltanto un peso e
un intralcio agli acquisti, e l’unica cosa che interessa al
consumatore-elettore è il brand, l’identità, l’appartenenza ad
un gruppo coeso e omogeneo. Steve Jobs ha costruito le fortune della
Apple su un modello di marketing analogo, che spinge i consumatori a
ricomprare sempre gli stessi oggetti, lievemente rinnovati, per
riconfermare la propria appartenenza ad una comunità esclusiva.
Dal
punto di vista organizzativo, il M5s somiglia molto ad un classico
partito leninista novecentesco: c’è una base ristretta di seguaci
pronti a tutto (quelli che un tempo si chiamavano rivoluzionari di
professione), c’è un potente sistema di comunicazione (i comunisti
lo chiamavano agit-prop) e c’è una leadership carismatica e
inamovibile (il segretario generale conclude contemporaneamente
l’incarico e la vita): su questo modello, Casaleggio ha innestato
da un lato l’aggressività del marketing digitale, capace di
unificare il pulviscolo di storie, interessi, rancori e speranze che
agita una parte di società, e dall’altro la potenza
semplificatoria dell’insulto, il mantra identitario che consolida
la comunità e la distingue dalle altre. Più che interrogarsi sulla
grandezza di Casaleggio, bisognerebbe forse riflettere sulla
permeabilità assoluta della nostra società politica e sulla deriva
dell’opinione pubblica.
Il
tratto antimoderno, per non dire reazionario, dell’ideologia
casaleggiana sta proprio qui, in questo ostinato rifiutare la
complessità del Moderno, che porta con sé la tolleranza come
strumento di sopravvivenza e la continua revisione delle idee come
motore dello sviluppo, per rifluire invece in una visione settaria,
integralista, medievale, dove il Bene e il Male si confrontano nella
loro immutabile fissità. Intollerante e ottuso il M5s lo è per
natura, e non c’è bisogno di ricordare le centinaia di esplusioni
a tutti i livelli (sempre imposte da Casaleggio) per averne conferma.
Resta da capire che cosa succederà adesso che l’unica testa
pensante non c’è più. Il brand resta molto forte, ma il
testimonial appare stanco e i venditori porta a porta sono pronti a
dilaniarsi per il controllo del partito, mentre l’utopia
internettiana della trasparenza e della partecipazione non interessa
più nessuno.
di
Fabrizio Rondolino per L' Unità.TV
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