L’ambizione
sbagliata del
referendum
Il
presidente emerito: referendum “strumentale” e
“inconsistente”.
Renzi: questa consultazione è una bufala
Dicono
i sondaggisti che è probabile che nei giorni scorsi, in
corrispondenza della vicenda-Guidi e dell’emersione dell’inchiesta
potentina sui petroli, ci sia stata una maggiore propensione
dell’elettorato ad andare a votare per il referendum sulle
trivelle. E che per converso con il calare dell’attenzione su Tempa
Rossa questa voglia di votare si sia attenuata. Se questa
oscillazione al ribasso, in un contesto già di suo poco mobilitante,
sarà stata fatale per i referendari lo vedremo domenica sera. Però
abbiamo fin da adesso la conferma di una “ambizione sbagliata”,
come il titolo del vecchio romanzo di Moravia: e cioè che i
referendum siano diventati occasione per evocare altro.
Formalmente
si vota su x, sostanzialmente si vota su y. La «bufala» di cui ha
parlato ieri Renzi. La «strumentalità» del quesito di domenica,
assieme alla «inconsistenza» della domanda referendaria, è stata
denunciata senza giri di frase da un uomo sempre così accorto nelle
parole come Giorgio Napolitano. Pienissima la sintonia dell’ex capo
dello Stato con il presidente del Consiglio: «Il referendum voluto
dai consigli regionali, non dai cittadini, non vieta nuovi impianti:
rende solo impossibile continuare a sfruttare quelli che già ci
sono, alla scadenza – scrive Matteo Renzi nella sua e news – la
bufala è questa: dicono che si voti sulle rinnovabili, su un nuovo
modello di sviluppo, sull’alternativa alle energie fossili.
In
realtà si chiudono impianti che funzionano, facendo perdere
undicimila posti di lavoro e aumentando l’importazione di gas dai
paesi arabi o dalla Russia». E ribadisce: «Sia chiaro: ogni scelta
è legittima. Chi vuole che il referendum passi deve votare sì, chi
vuole che il referendum non passi può scegliere tra votare no o non
andare a votare». E dunque, «le rinnovabili da sole non bastano,
per il momento. Se chiudiamo le nostre piattaforme dovremo comprare
più gas e petrolio dagli arabi o dai russi, sprecando le risorse già
esistenti. A me sembra più saggio finire di estrarre ciò che già
c’è, senza licenziare i lavoratori del settore e senza sprecare
l’energia che abbiamo».
Altro
che bufale. Più che legittimo chiedersi se davvero la proroga delle
installazioni entro le 12 miglia sia questione così decisiva o se
non sia materia da trattare in sedi istituzionali, e con uno scrupolo
«tecnico» che non può ridursi a un sì o un no. Ora, chi la pensa
così, cosa deve fare? Andare a votare per forza? Non è
evidentemente logico. Ecco perché astenersi è legittimo, o come
dice ancora Napolitano, «è un modo di esprimersi».
Di
esprimere dissenso rispetto a questa specifica iniziativa
referendaria. Non più capo dello Stato, Napolitano ha dato voce a
un’opinione diffusissima se non prevalente, ma questo è stato
sufficiente per aizzare la canea di grillini, brunettiani,
sinistri-sinistri (sgradevole D’Attorre quando chiede a Napolitano
di «fare autocritica») leghisti, e nemmeno una giornata di lutto ha
frenato l’assalto volgare di Di Battista contro il presidente
emerito della Repubblica. Mentre Emiliano – Michele, non Zapata –
ha messo improvvidamente in contrapposizione l’esternazione di
Napolitano con lo scivolone compiuto da un insigne giurista come il
presidente della Corte Costituzionale Grossi che ha sostanzialmente
teorizzato che «votare è da buon cittadino», come se astenersi
fosse da «cattivo cittadino».
D’altra
parte, la confusione la stiamo vedendo in questa specie di campagna
elettorale, piuttosto multiforme nella sostanza. I vari proponenti
infatti assegnano un significato diverso l’uno dall’altro:
indebolire Renzi, o punire i corrotti, o garantire il mare pulito, o
sanzionare le multinazionali… È anche questo che indebolisce lo
strumento referendario, perché, come ha scritto Pierluigi Battista
sul Corriere della Sera, «con questa deformazione, il referendum ne
esce ovviamente snaturato e stravolto», e i primi a doversene dolere
sono proprio i proponenti. Se il referendum di domenica fallisse
saremmo davanti a un ennesimo colpo all’istituto referendario, che
di ferite e lividi ne ha già pieno il corpo. Innanzi tutto –
appunto – per la particolarità e tecnicità delle domande, alle
quali dovrebbe essere il parlamento a dar risposta.
La
domanda deve vertere invece su grandissime questioni di fondo: al
referendum sul divorzio che è probabilmente il miglior esempio di
ricorso limpido a questo strumento, andò non a caso a votare l’88
% degli italiani! È giusto anche ricordare che l’elusione
dell’esito di alcuni referendum non ha certo fatto bene alla
democrazia: se i cittadini scelgono di abrogare una norma, è poi
grave che il parlamento la ripristini sotto altro nome (grottesco il
caso dell’abolizione del ministero dell’Agricoltura trasformato
poi in ministero delle Risorse agricole).
Quale
soluzione, dunque, per rimettere in sesto un istituto democratico in
crisi? Le ricette sono più d’una. Però c’è una cosa su cui
tutti dovrebbero mettersi d’accordo, e avrebbero anche il plauso
degli italiani: far sì che prevalga solo il merito della questione.
Senza furbizie, trucchetti, politicismi. Questa
dovrebbe essere la bussola anche nel referendum istituzionale. Altro
che plebiscito: il merito, piuttosto. Renzi ha un po’ corretto il
tiro proprio in questa direzione, e non a caso. Perché conviene
anche alla sua battaglia d’autunno stare al merito di una riforma,
come ha detto ancora Napolitano, che non è affatto un pericolo per
la democrazia ma un tentativo di attuare quanto auspicato da molto,
troppo tempo.
di
Mario Lavia per L' Unità.TV
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