25
aprile, Reichlin: “Il grande
cambiamento avvenne nel popolo”
Conversazione
con Alfredo Reichlin. “Per capire cosa è stato il 25 aprile
bisogna rendersi conto di cosa è stato l’8 settembre: il crollo di
uno Stato che mette ciascuno, come singolo, di fronte alle proprie
responsabilità”
“Per
capire il 25 aprile del ’45 bisogna rendersi conto di cos’è
stato l’otto settembre. L’otto settembre 1943 è la data
fondante: il crollo totale di uno Stato, che ha messo gli italiani,
come singoli, ognuno di fronte alle proprie responsabilità. Questo
bisogna capire. Il destino di una nazione che diviene il problema di
ognuno, dal soldato semplice ai vertici politici e militari. Io sono
figlio di questa storia. E così si spiega la relativa facilità…
molto relativa, sia chiaro, molto relativa… con cui io, Gerratana,
Salinari, Calamandrei e tanti altri abbiamo preso le armi a Roma e
abbiamo fatto quello che abbiamo fatto”.
Per
quante riserve possa avere sul mondo, l’Italia o la politica di
oggi, e per quanto nelle sue riflessioni non manchi mai il
riferimento ad altre stagioni della nostra storia, Alfredo Reichlin
non è di quelli che amano abbandonarsi alle rievocazioni del tempo
che fu, per il puro gusto di celebrare il passato, o di svalutare il
presente. Anche quando parla di storia, quale che sia l’occasione o
il contesto, in un modo o nell’altro, finisce sempre per parlare
dell’Italia di oggi e soprattutto di domani, perché quello è
sempre il centro dei suoi pensieri. Forse anche per una sorta di
deformazione professionale da dirigente politico di vecchia scuola,
da intellettuale-politico che non ha mai esitato a confrontarsi con
la più stretta attualità (è stato anche, per due volte, direttore
di questo giornale). Mantenendo però al tempo stesso, e tanto più
negli ultimi anni, una certa avversione non diciamo per la polemica
quotidiana (questo è ovvio), ma anche per tutto ciò che appartiene
alla dimensione più contingente e immediata della lotta politica. Se
ne potrebbe dedurre che sia semplicemente un intellettuale poco
amante della battaglia di prima linea, se non fosse che la politica,
Reichlin, non l’ha incontrata in biblioteca. Come si diceva, il suo
apprendistato, giovanissimo, lo ha fatto nella resistenza romana.
Per
parlare dell’Italia del 25 aprile ’45 e dell’Italia di oggi, e
di come è cambiato in questi anni il nostro rapporto con la
resistenza e l’antifascismo, non possiamo, dunque, non partire da
qui. O meglio ancora, da un attimo prima. Perché forse quello che
oggi risulta più interessante è capire non tanto cosa succeda una
volta che si sia scelto di prendere le armi, ma cosa succede prima,
come ci si arriva, cosa ha potuto portare tanti ragazzi di sedici,
diciotto o venticinque anni, in buona parte lontanissimi per indole e
formazione da ogni idea di lotta armata, a compiere una simile
scelta. “Non si capiscono quegli eventi – ci risponde Reichlin –
se non si tiene conto del maturare, negli ultimi anni del fascismo,
di una generazione straordinaria. Personalità come Antonio Giolitti,
Giame Pintor, Pietro Ingrao…”.
Cominciamo
da qui. Dall’inizio, anzi, da prima dell’inizio: cosa pensava,
come passava il tempo libero, cosa leggeva il giovane Alfredo
Reichlin, prima di entrare nella resistenza? Come è avvenuto il
passaggio da studente a partigiano?
Leggevo
Montale, i grandi romanzi russi, la storia della rivoluzione russa di
Chamberlin. Per me il liceo era già una scuola di politica. Ero
compagno di banco di Luigi Pintor. Quando andavo a fare i compiti a
casa sua, a via Nizza, suo fratello Giaime, ufficiale addetto alla
commissione d’armistizio, ci portava da Parigi i dischi di
Stravinsky. La lontananza più grande io la sentivo con la
generazione di mio padre, con il ceto politico prefascista, perché
si preparava già una nuova cultura. Parlo del nuovo giornalismo,
parlo di Guttuso, parlo di Mafai. Parlo dell’esistenza di forti
élite del tutto nuove, che in parte si erano formate negli ultimi
anni del fascismo. Personalità con cui a me, e non solo, è capitato
di venire in contatto tra i quindici e i sedici anni.
Finché
all’improvviso piomba su tutti gli italiani, giovani e vecchi,
intellettuali e analfabeti, la tragedia dell’otto settembre. E
molti decidono di prendere le armi. È per questo che la definisce la
vera data fondante?
Attenzione,
il grande fatto della resistenza non fu semplicemente la
partecipazione in armi, che certo fu un fatto non da poco, che unì
profondamente un popolo, anche oltre le divisioni di classe. Basta
rileggere il diario di Giolitti dal Piemonte per capire l’importanza
che ebbe prendere in mano le sorti del paese. Penso all’ufficiale
tedesco che firma la resa, per uscire da Genova, davanti all’operaio
Scappini. Tutto questo ha un’enorme importanza, certamente. Ma il
vero salto è un altro.
E
cioè?
Il
vero salto è quello che avviene non solo nella storia d’Italia, ma
nella storia degli italiani, che si riconoscono l’un l’altro su
un terreno nuovo, si abbracciano e combattono insieme. Il salto di
qualità antropologico, ecco quello a cui io ho assistito, e quello
che da allora mi detta la mia coscienza: un’idea nuova del popolo
italiano. È il passaggio da plebe a nazione.
Non
fu però un passaggio indolore. Tra gli stessi partigiani comunisti,
per esempio, affermare che l’obiettivo era la democrazia, e non la
rivoluzione, non fu facile né scontato…
Certo
che no. Noi avemmo il grande problema di riconsegnare le armi. In
larghe zone del nostre partito, al Nord, c’era la tentazione di
fare una repubblica di tipo jugoslavo. Bisogna ricordare la nettezza
e la forza con cui Palmiro Togliatti disse: no, repubblica
democratica parlamentare classica. Non fu affatto una passeggiata
farlo accettare ad ampi settori del nostro partito, come del resto
non era scontato che lo accettassero, da un altro punto di vista, le
alte sfere vaticane, o inglesi. Il rischio di sprofondare nella
guerra civile, come in Grecia, fu serissimo. Ci è mancato un pelo. E
se non è finita così il merito è di Palmiro Togliatti. E anche di
Alcide De Gasperi.
In
fondo il patto costituzionale è nato prima di tutto lì: tra
Togliatti che si impegna a frenare quelli che volevano fare la
rivoluzione e De Gasperi che si impegna a frenare quelli che volevano
mettere fuori legge i comunisti…
Di
più. Bisogna pensare che la nostra Costituzione è stata scritta da
quelli che erano fuori da tutto: i cattolici, che erano rimasti fuori
dal Risorgimento, i socialisti e i comunisti, che erano emigrati,
esuli o venivano dalla lotta in clandestinità. Noi abbiamo una
Costituzione che non è stata fatta dalla classe dirigente, uscita
completamente screditata dalla sua alleanza con il fascismo. Qui c’è
un salto nel rapporto tra dirigenti e diretti, è questo che cambia,
e cambia anche perché noi facciamo una grande politica unitaria.
Perché l’Italia è un paese complicato e si governa solo con una
grande alleanza.
Anche
questo è un tema antico, destinato a riproporsi ciclicamente. Penso
a Enrico Berlinguer che negli anni settanta diceva che l’Italia non
si governa col 51 per cento. Era proprio così?
Negli
anni settanta l’Italia veniva da un’industrializzazione
rapidissima, miracolosa, per l’appunto: all’epoca della
liberazione l’Italia era un paese contadino, dove l’analfabetismo
era diffusissimo. Oggi forse si fatica persino a immaginarlo, ma io
l’ho vista coi miei occhi, l’Italietta, allora. E me lo ricordo,
in Puglia per esempio, il passaggio da quel mondo, dove il dipendente
stava “a giornata”, a quello del lavoratore che diventa
cittadino, con dei diritti, con un orario di lavoro. Il passaggio
dall’impiego “da sole a sole”, come si diceva allora, all’idea
che il lavoratore non è una cosa, è il titolare di un contratto.
Tutto questo è cambiato in un tempo rapidissimo, e a garantire
questo cambiamento è stata la tenuta di quel patto costituzionale. È
stata la politica unitaria. È quello che mi hanno insegnato nel Pci,
dove mi dicevano sempre: stiamo attenti ai moderati, perché quando i
moderati si uniscono ai reazionari sono guai. Lo dice la storia
d’Italia: noi non siamo l’Inghilterra.
È
una lezione valida ancora oggi?
Questo
è un punto di fondo: l’idea che l’Italia non si governa
attraverso contrapposizioni radicali, che l’asse di governo
dell’Italia è il centrosinistra, è il rapporto della sinistra con
i moderati. Io stesso, quando oggi critico Renzi, non lo critico
perché cerca un rapporto con i moderati, ma per il modo in cui lo
fa. Per una visione che a me pare troppo verticistica. Anche questa
idea della disintermediazione, che va tanto di moda, non mi piace. Ci
vedo l’idea che se verticalizzi il potere, se metti in un angolo
partiti, sindacati, associazioni, sei più forte. E invece secondo me
non è vero. Perché l’Italia, come dicevamo, è un paese
complicato.
Però
ogni volta che la sinistra cerca di costruire un rapporto con i
moderati, dal suo interno emergono sospetti di tradimento e
complotto.
Mi
fanno ridere quelli che parlano di complotti. Come diceva sempre
Togliatti: la politica è quello che si vede.
di
Francesco Cundari per L' Unità.TV
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