Verdini e le strane amnesie della Sinistra Pd
Sembra
che a Bersani e Speranza dispiaccia il crollo di Berlusconi. Non
volevano smacchiare il giaguaro?
Un
errore che non andrebbe mai commesso, usavano dire i dirigenti del
vecchio Pci, è quello di credere alla propria propaganda. La
propaganda è necessaria, naturalmente quando sa essere efficace: ma
anche in questo caso va tenuta ben separata dalla realtà, da una sua
analisi severa, dal contesto politico in cui ci si trova ad agire, e
dalla verità dei fatti. Altrimenti, oltre al rischio di coprirsi di
ridicolo, si corre quello ben più grave di risultare politicamente
ininfluenti. Un conto infatti è gridare «al lupo! al lupo!», e un
altro conto è salvare le pecore.
Parliamo
per esempio della nevrosi compulsiva che prende alcuni spezzoni della
minoranza del Pd – segnatamente quello che fa capo all’ex
segretario Bersani – ogniqualvolta il nome di Denis Verdini sale
all’onore delle cronache. Dell’intero universo
politico-parlamentare, peraltro assai variegato e frammentato,
soltanto Verdini riesce a suscitare tanta attenzione, tanto
interessato riguardo e tanto scandalo.
Così
è stato giovedì, quando il
leader di Ala è stato condannato in primo grado a due anni per
concorso in corruzione,
come se quella condanna (non definitiva) coinvolgesse anche il
governo e il presidente del Consiglio; ma così è stato persino
quando Verdini e i suoi hanno votato a favore della fiducia tecnica
sul maxiemendamento che ha consentito l’approvazione della legge
sulle unioni civili: anziché ringraziarlo per aver aiutato il Paese
a riallinearsi, seppur in estremo ritardo, agli altri Paesi
occidentali, i succitati spezzoni della minoranza del Pd hanno fatto
il diavolo a quattro.
Il
fatto è che Verdini non ha cominciato a fare politica il 23 luglio
2015, quando dopo un pranzo con Berlusconi annunciò che avrebbe
lasciato Forza Italia. No, la sua carriera è un pochino più lunga e
il suo ruolo è stato più volte decisivo. Per esempio quando,
all’indomani delle elezioni “non vinte” del 2013, Bersani
propose a Berlusconi un accordo per eleggere Marini al Quirinale; o
quando, malamente naufragate in aula tutte le candidature fino ad
allora avanzate, s’accordò sempre con Berlusconi per implorare
Napolitano di accettare la rielezione; o infine quando trattò,
naturalmente con Berlusconi, la struttura e il programma del governo
di unità nazionale guidato dal suo vicesegretario Enrico Letta.
In
tutte queste occasioni – quando cioè si doveva trovare un accordo
non su una legge importante ma isolata come le unioni civili, bensì
sulla più alta carica dello Stato e sul governo del Paese – al
fianco di Berlusconi c’era il suo braccio destro Verdini: eppure né
l’allora segretario del Pd, né il giovane capogruppo Speranza
ebbero nulla da ridire. Al contrario, valorizzarono giustamente lo
spirito di collaborazione, il superamento delle antiche divisioni, il
comune senso di responsabilità e via enfatizzando.
Poi,
quel 23 luglio dell’anno scorso, Verdini lasciò Berlusconi. I
motivi sono noti: non condivideva la rottura dell’accordo sulle
riforme costituzionali consumatasi con l’elezione di Mattarella al
Quirinale. E da quel giorno, magicamente, Verdini è diventato
Barbablù.
Eppure,
se gli spezzoni della minoranza del Pd che s’indignano per Verdini
dopo averci fatto insieme un presidente della Repubblica e un governo
riflettessero in termini politici e per una volta non si lasciassero
prendere dal rancore della sconfitta, dovrebbero invece gioire. Non
volevano forse «smacchiare il giaguaro»?
Da
quando di Berlusconi si occupa Renzi, il povero Cavaliere ha perso
metà dei suoi parlamentari, nei sondaggi sta sotto alla Lega e il
suo intero gruppo dirigente – da Alfano, segretario del partito, a
Bondi, coordinatore dell’ufficio di presidenza – l’ha
abbandonanto. E sarebbe ben curioso se a dolersene, oltre a
Berlusconi, ci fossero anche Bersani e Speranza.
Di
Fabrizio Rondolino per L' Unità.TV
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