Chi ha tradito le primarie
Da Orlando a Cofferati, fino alla tentazione di Bassolino. Cosa è successo a chi non ha accettato l’esito dei gazebo
Chissà
se Antonio Bassolino starà pensando a quel precedente che potrebbe
fargli gola, per decidere se rompere gli indugi e scendere in campo
con una propria lista alle prossime elezioni comunali a Napoli.
L’anno è il 2012, la città è Palermo. Nel capoluogo siciliano si
è compiuto il primo tradimento del risultato delle primarie ad opera
di Leoluca Orlando. Sindaco della “Primavera” lui, sindaco del
“Rinascimento” Bassolino, furono nel 1993 due degli interpreti
principali di quella stagione del centrosinistra, che proprio nei
primi cittadini sperava di trovare la forza per imporsi a livello
nazionale. Le cose andarono diversamente e le esperienze di quelle
personalità si chiusero anni dopo con alterne fortune.
Finché
nel 2012, appunto, Orlando ritornò prepotentemente sulla scena.
Schierato al fianco di Rita Borsellino nelle primarie che videro la
sorella del magistrato assassinato da Cosa nostra contrapposta, tra
gli altri, a Fabrizio Ferrandelli, l’ex sindaco non accettò il
verdetto degli elettori, che determinarono il successo per una
manciata di voti proprio del suo ex pupillo Ferrandelli. Orlando
allora gridò ai brogli, ruppe il patto di coalizione tra la sua Idv
e il Pd e scese in campo personalmente, stravincendo al primo turno e
poi al ballottaggio proprio contro il candidato ufficiale dem.
In
realtà, allora i sospetti di irregolarità trovarono più di qualche
fondamento, documentato in maniera più solida di quanto avvenuto a
Napoli nei giorni scorsi, e perfino la Digos a urne aperte intervenne
a verificare cosa stesse succedendo in prossimità di alcuni gazebo.
Ma questo conta poco. Il precedente c’è e visto com’è andato a
finire, per Bassolino può rappresentare un invito a nozze.
Ma
più o meno contemporaneamente a quello palermitano, si consumava un
altro tradimento del risultato delle primarie. E stavolta per volere
dei dirigenti del Partito democratico. La scena è Trani, dove
nell’ottobre del 2011 il circolo locale montò i gazebo per
scegliere il candidato a sindaco per la primavera successiva. Si
affermò Fabrizio Ferrante, ma fu una vittoria di Pirro. Nel giro di
poche settimane, infatti, i vertici regionali del Pd – con l’avallo
di quelli nazionali – sacrificarono la scelta degli elettori
tranesi sull’altare delle alleanze: per mettere in piedi una
coalizione ampia, da Sel a Fli, fu imposta dall’asse Roma-Bari
(bersanian-dalemiano) la candidatura di Ugo Operamolla. Ferrante
lasciò allora il partito insieme a 106 dei 140 iscritti in città e
si candidò con una lista civica che alle elezioni ottenne più voti
di quella del Pd, mentre Operamolla riuscì a scavalcarlo al primo
turno, per essere poi sconfitto al ballottaggio dal candidato del
centrodestra.
E
veniamo al caso più recente e tristemente noto, quello della
Liguria. Lì all’inizio del 2015 si consumò lo strappo che ancora
oggi fa più male al Pd, quello di Sergio Cofferati, che portò a
consegnare la Regione nelle mani di Giovanni Toti e del centrodestra.
Anche in quell’occasione il pretesto per la rottura furono i brogli
che si realizzarono in alcune realtà e che portarono ad annullare il
voto in 13 seggi. Anche dopo questa decisione, però, l’esito vide
comunque prevalere Raffaella Paita. Un risultato che l’ex sindaco
di Bologna – com’è noto – non accettò, lasciando il partito e
lanciando la candidatura di Luca Pastorino. Una spaccatura a sinistra
che condizionò pesantemente l’esito delle elezioni e che
rappresenta ancora oggi un precedente allarmante.
Nessun commento:
Posta un commento