L’Islam in Italia, le donne musulmane in lotta per la libertà: «Oppresse dagli uomini, non dal Corano»
di Goffredo Buccini e Alessandra Coppola
Secondo un rapporto dell’antiterrorismo in Europa «sono il 10% dei foreign fighters». Ma da noi sono sempre più inserite nella società. Katkhouda: «Una delle mie figlie si è appena laureata al Politecnico, ingegnere. Si continua a parlare di queste ragazze per come si vestono, e non per come si comportano da cittadine italiane»
Ma
me la danno la lavatrice, da voi, in Siria? E me lo posso portare,
laggiù, Adriano il gatto? Il lessico familiare, via Skype, di mamma
Assunta con la sua balenga figliola Maria Giulia, divenuta Sorella
Fatima nel Califfato, racconta molto della gran confusione mentale
che ha indotto e induce una pattuglia di donne europee e, ormai, più
d’una italiana, a ingrossare le file dell’Isis. Frustrazione e
spaesamento, ingenuità ed esaltazione, talvolta soltanto desiderio
di raggiungere qualcuno che si ama ed è già lì, a metà tra
palingenesi globale e piccolo riscatto quotidiano.
Un
picco vistoso. Secondo un rapporto riservato dell’antiterrorismo
sui foreign fighterse la loro area di reclutamento, «le donne sono
circa il dieci per cento di chi ha lasciato l’Occidente: età tra i
16 e i 24 anni, molte laureate». E tuttavia la «Sorellanza» è
assai poco rappresentativa di 644 mila musulmane d’Italia,
soprattutto albanesi e maghrebine, in stragrande maggioranza inserite
nella nostra società.
Lo
spazio vuoto
«Se
sei interessata a una cintura esplosiva più che a un abito bianco o
alle fantasie delle principesse di Disney, vieni da noi», promettono
i propagandisti di al-Zawra , la scuola jihadista che da Raqqa offre
corsi di cucina e legge islamica, di economia domestica, armi e
social media a centinaia di giovanissime come Merieme Rehally,
Sorella Rim nel mondo Twitter , la studentessa che a luglio ha
lasciato Padova per arruolarsi nella logistica sotto le nere bandiere
di Al Baghdadi. Nello spazio vuoto del relativismo, al tempo stesso
frutto maturo e tallone d’Achille dell’Occidente, un messaggio
che pretende di dividere il bene e il male con la spada può
penetrare a fondo. L’antidoto, forse, è riempire quello spazio
vuoto con la razionalità. Cercando di ascoltarle, le voci delle
migliaia di musulmane attorno a noi. Al di là del velo, anche.
«Qualcuno
provi a mettersi un fazzoletto in testa e a cercare lavoro»,
scriveva provocatoriamente l’italo-giordana-palestinese Sumaya
Abdel Qader: «Beh, le probabilità di riuscirci tendono allo zero!».
Era il 2008 e, pioniera tra le seconde generazioni, Sumaya aveva
creato il personaggio ironico di Sulinda, 30 anni. E nel romanzo
autobiografico «Porto il velo, adoro i Queen» (Sonzogno) scherzava
sull’hijab , che incornicia il viso, rivendicando la libertà di
indossarlo: «Non ne possiamo proprio più del pregiudizio che le
velate siano delle sfigate nascoste sotto una tenda. È vero, ci sono
Paesi dove il velo è obbligatorio e le donne non se la passano certo
bene, ma la colpa non è della religione, bensì del delirio di
onnipotenza di certi uomini che, soffrendo di misoginia, si sfogano
prendendosela con l’altra metà del cielo e inventandosi mille
giustificazioni».
Il
velo e l’identità
Dunque
il velo non è un simbolo di oppressione? «In Italia, come nel resto
d’Europa e in generale nel mondo musulmano, è tornato al centro
della sfera pubblica, frutto di una libera scelta», risponde Renata
Pepicelli, docente alla Luiss e curatrice con Ivana Acocella di un
recente volume del Mulino sulle giovani musulmane: «Soprattutto,
sempre più donne di seconda generazione scelgono di indossarlo»,
spiega. «Dagli anni Novanta in poi si è assistito nel mondo a un
revival religioso (non solo musulmano) in cui i simboli acquistano
forza. E il velo è un simbolo per antonomasia». Diventa poi anche
«bandiera per una comunità che si è sentita in blocco sotto
attacco dopo l’11 settembre 2001», con una motivazione
identitaria. Infine, si trasforma in vessillo politico, «in
opposizione ai regimi del mondo islamico ritenuti illegittimi e
dittatoriali, ma anche contro le spinte assimilazioniste in Europa»,
per esempio contro le regole francesi che l’hanno vietato a scuola.
Questione d’orgoglio, allora...
«Non
direi però che si tratta di un ritorno», puntualizza Souheir
Katkhouda, presidente dell’Associazione donne musulmane d’Italia:
«Il velo è la continuazione della buona educazione proposta dalla
famiglia, così come succede nelle famiglie cristiane. E sarebbe ora
di andare oltre». Siriana di origine, 55 anni (gli ultimi quaranta
dei quali a Milano), sette figli di cui 4 femmine, Katkhouda ha
esperienza anche di seconde generazioni: «Una delle mie figlie si è
appena laureata al Politecnico, ingegnere. Si continua a parlare di
queste ragazze per come si vestono, e non per come si comportano da
cittadine italiane di fede musulmana». Se nelle scuole e nelle
università questa «stranezza» le sembra ormai superata («per i
loro compagni non c’è differenza») di nuovo «qualche problema
resta nel cercare lavoro, perché la gente non è ancora abituata».
Molte musulmane di seconda generazione sostengono che proprio il
rifiuto dal lavoro, con conseguente impossibilità di indipendenza
economica, le spinga di nuovo sotto padri, mariti, fratelli. Ma
spesso la faccenda è più complessa .
Se
l’unica finestra è una tv
«Gli
uomini sono preposti alle donne, a causa della preferenza che Allah
concede agli uni rispetto alle altre...», recita il Corano alla Sura
IV ( An-Nisa’ , Le Donne), versetto 34. Naturalmente il cuore del
problema starebbe nella sua contestualizzazione storica. Per i
fondamentalisti il testo sacro è per definizione infallibile e
metastorico. A «ricordarlo» alle ragazze occidentali dentro la
«Sorellanza nel Califfato» ci sono due brigate, a Raqqa in Siria e
ad al-Anbar in Iraq: la Umm al-Rayan e la al Khansa , che vigilano
sulla «pubblica moralità».
Da
noi l’uso che i maschi fanno di questo concetto è talvolta
criminale. L’omicidio della pakistana Hiina Salem, massacrata e
sepolta nel 2006 dal padre con l’aiuto di alcuni parenti maschi, e
quello della marocchina Saana Dafani, accoltellata dal padre nel
2009, hanno acceso un faro sulla condizione di giovani donne accusate
dalle famiglie di avere comportamenti e frequentazioni troppo
occidentali.
Ma
c’è chi sostiene sia ingiusto tirare in ballo l’Islam e più
corretto prendersela con una cultura arcaica, con codici di
comportamento derivati da remoti villaggi del Punjab o del Medio
Atlante. Le caratteristiche della migrazione pachistana e bangladese
in Italia, del resto, costringono spesso la donna a ruoli defilati,
in alcuni casi ai limiti della segregazione. La prima generazione è
guidata da uomini soli che partono per lo più da condizioni
disagiate. Le mogli arrivano coi ricongiungimenti e di frequente
restano in casa: non escono a lavorare, non imparano l’italiano, la
loro unica finestra è la tv satellitare che trasmette in urdu o in
bengalese. Tutt’altra storia con i figli che vanno a scuola e si
«italianizzano», senza perdere però il retaggio familiare. Un peso
soprattutto per le femmine, dall’adolescenza in poi: l’imposizione
di abiti consoni, il matrimonio combinato con ragazzi dei villaggi
d’origine, maggiori limitazioni rispetto alle coetanee.
Uomini
che odiano le donne
Le
infibulazioni, non prescritte dalla religione islamica, sono state in
Italia almeno 14 mila in dieci anni, fino alla legge che, nel 2006,
le vietò. I non infrequenti casi di poligamia (prevista invece dal
Corano alla Sura IV versetto 3) sono altra benzina sul fuoco. Luisa,
vittima per 7 anni di suo marito Issam, sposato con un’altra donna
in Egitto, ne descrive il cambiamento nei gesti e nelle parole, la
progressiva «radicalizzazione a causa di frequentazioni sbagliate»:
«Mi diceva: se ci nasce una femmina e si veste come voi italiani,
giuro che vi ammazzo tutte e due».
«Noi»
e «loro». Radici ed eredità. Fardelli che trascineremo per anni,
logorandoci. Appare arduo attribuire a un testo, quale che sia, le
colpe di chi probabilmente non ne ha mai letto alcuno e agisce per
brutale incultura, per riflesso atavico, per mera ripetizione di
modelli assimilati.
E
del resto solo chi soffre d’amnesia può azzardare rampogne. Fino a
trentaquattro anni fa, il delitto d’onore consentiva a un marito
italiano tradito di accoppare la moglie cavandosela con blande
conseguenze. Fino a trecento anni fa, applicavamo alle streghe il
Malleus Maleficarum , un «codice» di procedura penale vergato da
due domenicani a fine Quattrocento.
Quando
questi nostri giorni di piombo saranno passati, non sarà male
rammentarlo; ricordando a noi stessi che la storia ha per ciascuno un
proprio passo. E riscoprendo, magari, la pietà dimenticata nel
negare funerali cattolici in morte di mamma Assunta che, più della
lavatrice o della guerra santa, sognava di poter vivere ancora un po’
accanto a sua figlia: si chiamasse Maria Giulia o Fatima.Ma me la
danno la lavatrice, da voi, in Siria? E me lo posso portare, laggiù,
Adriano il gatto? Il lessico familiare, via Skype, di mamma Assunta
con la sua balenga figliola Maria Giulia, divenuta Sorella Fatima nel
Califfato, racconta molto della gran confusione mentale che ha
indotto e induce una pattuglia di donne europee e, ormai, più d’una
italiana, a ingrossare le file dell’Isis. Frustrazione e
spaesamento, ingenuità ed esaltazione, talvolta soltanto desiderio
di raggiungere qualcuno che si ama ed è già lì, a metà tra
palingenesi globale e piccolo riscatto quotidiano.
Un
picco vistoso. Secondo un rapporto riservato dell’antiterrorismo
sui foreign fighterse la loro area di reclutamento, «le donne sono
circa il dieci per cento di chi ha lasciato l’Occidente: età tra i
16 e i 24 anni, molte laureate». E tuttavia la «Sorellanza» è
assai poco rappresentativa di 644 mila musulmane d’Italia,
soprattutto albanesi e maghrebine, in stragrande maggioranza inserite
nella nostra società.
Lo
spazio vuoto
«Se
sei interessata a una cintura esplosiva più che a un abito bianco o
alle fantasie delle principesse di Disney, vieni da noi», promettono
i propagandisti di al-Zawra , la scuola jihadista che da Raqqa offre
corsi di cucina e legge islamica, di economia domestica, armi e
social media a centinaia di giovanissime come Merieme Rehally,
Sorella Rim nel mondo Twitter , la studentessa che a luglio ha
lasciato Padova per arruolarsi nella logistica sotto le nere bandiere
di Al Baghdadi. Nello spazio vuoto del relativismo, al tempo stesso
frutto maturo e tallone d’Achille dell’Occidente, un messaggio
che pretende di dividere il bene e il male con la spada può
penetrare a fondo. L’antidoto, forse, è riempire quello spazio
vuoto con la razionalità. Cercando di ascoltarle, le voci delle
migliaia di musulmane attorno a noi. Al di là del velo, anche.
«Qualcuno
provi a mettersi un fazzoletto in testa e a cercare lavoro»,
scriveva provocatoriamente l’italo-giordana-palestinese Sumaya
Abdel Qader: «Beh, le probabilità di riuscirci tendono allo zero!».
Era il 2008 e, pioniera tra le seconde generazioni, Sumaya aveva
creato il personaggio ironico di Sulinda, 30 anni. E nel romanzo
autobiografico «Porto il velo, adoro i Queen» (Sonzogno) scherzava
sull’hijab , che incornicia il viso, rivendicando la libertà di
indossarlo: «Non ne possiamo proprio più del pregiudizio che le
velate siano delle sfigate nascoste sotto una tenda. È vero, ci sono
Paesi dove il velo è obbligatorio e le donne non se la passano certo
bene, ma la colpa non è della religione, bensì del delirio di
onnipotenza di certi uomini che, soffrendo di misoginia, si sfogano
prendendosela con l’altra metà del cielo e inventandosi mille
giustificazioni».
Il
velo e l’identità
Dunque
il velo non è un simbolo di oppressione? «In Italia, come nel resto
d’Europa e in generale nel mondo musulmano, è tornato al centro
della sfera pubblica, frutto di una libera scelta», risponde Renata
Pepicelli, docente alla Luiss e curatrice con Ivana Acocella di un
recente volume del Mulino sulle giovani musulmane: «Soprattutto,
sempre più donne di seconda generazione scelgono di indossarlo»,
spiega. «Dagli anni Novanta in poi si è assistito nel mondo a un
revival religioso (non solo musulmano) in cui i simboli acquistano
forza. E il velo è un simbolo per antonomasia». Diventa poi anche
«bandiera per una comunità che si è sentita in blocco sotto
attacco dopo l’11 settembre 2001», con una motivazione
identitaria. Infine, si trasforma in vessillo politico, «in
opposizione ai regimi del mondo islamico ritenuti illegittimi e
dittatoriali, ma anche contro le spinte assimilazioniste in Europa»,
per esempio contro le regole francesi che l’hanno vietato a scuola.
Questione d’orgoglio, allora...
«Non
direi però che si tratta di un ritorno», puntualizza Souheir
Katkhouda, presidente dell’Associazione donne musulmane d’Italia:
«Il velo è la continuazione della buona educazione proposta dalla
famiglia, così come succede nelle famiglie cristiane. E sarebbe ora
di andare oltre». Siriana di origine, 55 anni (gli ultimi quaranta
dei quali a Milano), sette figli di cui 4 femmine, Katkhouda ha
esperienza anche di seconde generazioni: «Una delle mie figlie si è
appena laureata al Politecnico, ingegnere. Si continua a parlare di
queste ragazze per come si vestono, e non per come si comportano da
cittadine italiane di fede musulmana». Se nelle scuole e nelle
università questa «stranezza» le sembra ormai superata («per i
loro compagni non c’è differenza») di nuovo «qualche problema
resta nel cercare lavoro, perché la gente non è ancora abituata».
Molte musulmane di seconda generazione sostengono che proprio il
rifiuto dal lavoro, con conseguente impossibilità di indipendenza
economica, le spinga di nuovo sotto padri, mariti, fratelli. Ma
spesso la faccenda è più complessa .
Se
l’unica finestra è una tv
«Gli
uomini sono preposti alle donne, a causa della preferenza che Allah
concede agli uni rispetto alle altre...», recita il Corano alla Sura
IV ( An-Nisa’ , Le Donne), versetto 34. Naturalmente il cuore del
problema starebbe nella sua contestualizzazione storica. Per i
fondamentalisti il testo sacro è per definizione infallibile e
metastorico. A «ricordarlo» alle ragazze occidentali dentro la
«Sorellanza nel Califfato» ci sono due brigate, a Raqqa in Siria e
ad al-Anbar in Iraq: la Umm al-Rayan e la al Khansa , che vigilano
sulla «pubblica moralità».
Da
noi l’uso che i maschi fanno di questo concetto è talvolta
criminale. L’omicidio della pakistana Hiina Salem, massacrata e
sepolta nel 2006 dal padre con l’aiuto di alcuni parenti maschi, e
quello della marocchina Saana Dafani, accoltellata dal padre nel
2009, hanno acceso un faro sulla condizione di giovani donne accusate
dalle famiglie di avere comportamenti e frequentazioni troppo
occidentali.
Ma
c’è chi sostiene sia ingiusto tirare in ballo l’Islam e più
corretto prendersela con una cultura arcaica, con codici di
comportamento derivati da remoti villaggi del Punjab o del Medio
Atlante. Le caratteristiche della migrazione pachistana e bangladese
in Italia, del resto, costringono spesso la donna a ruoli defilati,
in alcuni casi ai limiti della segregazione. La prima generazione è
guidata da uomini soli che partono per lo più da condizioni
disagiate. Le mogli arrivano coi ricongiungimenti e di frequente
restano in casa: non escono a lavorare, non imparano l’italiano, la
loro unica finestra è la tv satellitare che trasmette in urdu o in
bengalese. Tutt’altra storia con i figli che vanno a scuola e si
«italianizzano», senza perdere però il retaggio familiare. Un peso
soprattutto per le femmine, dall’adolescenza in poi: l’imposizione
di abiti consoni, il matrimonio combinato con ragazzi dei villaggi
d’origine, maggiori limitazioni rispetto alle coetanee.
Uomini
che odiano le donne
Le
infibulazioni, non prescritte dalla religione islamica, sono state in
Italia almeno 14 mila in dieci anni, fino alla legge che, nel 2006,
le vietò. I non infrequenti casi di poligamia (prevista invece dal
Corano alla Sura IV versetto 3) sono altra benzina sul fuoco. Luisa,
vittima per 7 anni di suo marito Issam, sposato con un’altra donna
in Egitto, ne descrive il cambiamento nei gesti e nelle parole, la
progressiva «radicalizzazione a causa di frequentazioni sbagliate»:
«Mi diceva: se ci nasce una femmina e si veste come voi italiani,
giuro che vi ammazzo tutte e due».
«Noi»
e «loro». Radici ed eredità. Fardelli che trascineremo per anni,
logorandoci. Appare arduo attribuire a un testo, quale che sia, le
colpe di chi probabilmente non ne ha mai letto alcuno e agisce per
brutale incultura, per riflesso atavico, per mera ripetizione di
modelli assimilati.
E
del resto solo chi soffre d’amnesia può azzardare rampogne. Fino a
trentaquattro anni fa, il delitto d’onore consentiva a un marito
italiano tradito di accoppare la moglie cavandosela con blande
conseguenze. Fino a trecento anni fa, applicavamo alle
streghe il Malleus Maleficarum , un «codice» di procedura penale
vergato da due domenicani a fine Quattrocento.
Quando
questi nostri giorni di piombo saranno passati, non sarà male
rammentarlo; ricordando a noi stessi che la storia ha per ciascuno un
proprio passo. E riscoprendo, magari, la pietà dimenticata nel
negare funerali cattolici in morte di mamma Assunta che, più della
lavatrice o della guerra santa, sognava di poter vivere ancora un po’
accanto a sua figlia: si chiamasse Maria Giulia o Fatima.
Da
IL Corriere Della Sera.it
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