Baby
pensionati, ecco i conti
Fino all’82 per cento in regalo
A
chi si è ritirato a 40 anni con contributi per 17 anni il sistema
previdenziale
«regala» l’82% dell’assegno
Esplora
il significato del termine: «C’è un pezzo d’oro» dentro quasi
ogni pensione italiana: ci credereste? Anche nelle più modeste c’è
del metallo prezioso, sotto forma di soldi che ci mettono lo Stato e
i lavoratori iscritti alla previdenza sociale per compensare la
differenza fra l’entità dell’assegno pensionistico e quello che
spetterebbe davvero al pensionato sulla base dei contributi versati.
Autore della provocazione aurea è Mario Baldassarri, economista ed
ex viceministro dell’Economia con il centrodestra, oggi animatore
del centro studi Economia reale.
Proprio
nel momento in cui il tema delle pensioni è di nuovo al centro del
dibattito politico, con il governo che vorrebbe aprire a forme di
flessibilità e l’Inps che studia una sforbiciatina ai trattamenti
retributivi più elevati, lui si è preso la briga di calcolare
proprio quella differenza. E i risultati delle sue proiezioni sono
decisamente più sconvolgenti di quanto si possa immaginare.
Prendiamo
il caso dei tanti baby pensionati. Chi avesse cominciato a riscuotere
un assegno di mille euro a quarant’anni di età con 17 anni di
contributi versati e altri 45 di aspettativa di vita sarebbe stato
omaggiato dallo Stato e dagli altri lavoratori con ben 442.800 euro.
E non è nemmeno il caso più estremo. Le cosiddette pensioni «baby»
sono state eliminate più di vent’anni fa, ma di situazioni simili
a questa ne esistono diverse centinaia di migliaia. Per ogni mille
euro di pensione, 820 vengono letteralmente regalate al pensionato
che si trova in tali condizioni. E se mille euro al mese per
un’aspettativa di vita di 85 anni, pari a quella delle donne
italiane (per gli uomini è intorno agli 80) fruttano a chi è uscito
dal mondo del lavoro a quarant’anni quasi 450 mila euro, per
duemila euro si salirebbe a 885.600 euro, per tremila a un milione
328.400 e così via.
All’opposto
di questa situazione si collocano coloro per i quali la pensione
retributiva, calcolata cioè in rapporto allo stipendio, coincide con
l’assegno contributivo, vale a dire misurato esclusivamente sui
contributi versati. Un punto di equilibrio che nelle proiezioni di
Baldassarri calza addosso a pochissimi: almeno 63 anni di età,
almeno 43 anni di contributi versati e altri 22 anni di aspettativa
di vita. Senza considerare, ovvio, la reversibilità ad eventuali
superstiti. I calcoli attuariali del resto sono spietati: riducendo i
requisiti anagrafici o i versamenti, il metodo retributivo regala
sempre qualcosa. Con questo sistema un lavoratore che si ritirasse a
57 anni con 37 di contributi avrebbe una pensione superiore del 30% a
quella contributiva. Un cinquantacinquenne con 35 anni di versamenti,
addirittura del 40%.
Il
che consente di fare anche il ragionamento inverso, e cioè di
valutare quanti soldi si dovrebbero rimettere decidendo di andare
prima in pensione, come sembrano prevedere alcune proposte in
gestazione, ma senza il regalino del metodo e retributivo. A 60 anni
e con ben 40 di contributi, il taglio sarebbe del 16,8 % A 58, del
26,9 . A 54, del 43,1.
«Ad
oggi», dice Baldassarri sottolineando che dalla riforma Dini che ha
introdotto il metodo di calcolo contributivo sono passati esattamente
vent’anni, «oltre il 90% delle pensioni è basato su retribuzioni
percepite e meno del 10 % è calcolato sulla base dei contribuiti
versati». Non solo. Esistono studi che dimostrano come ancora nel
2050 il 40% degli assegni previdenziali sarà erogato prevalentemente
con il metodo retributivo.
E
questo dà la misura di quella che Baldassarri chiama «una doppia
redistribuzione del reddito socialmente perversa: dai giovani agli
anziani e dai poveri ai ricchi». I giovani pagano le pensioni agli
attuali pensionati e poi, con il metodo contributivo, avranno assegni
da fame. E chi ha avuto uno stipendio alto ha oggi una pensione
altrettanto elevata senza aver pagato i contributi: un regalo enorme
a chi guadagnava tanto, contro un regalino più piccolo a chi
guadagnava meno. «C’è un pezzo d’oro» dentro quasi ogni
pensione italiana: ci credereste? Anche nelle più modeste c’è del
metallo prezioso, sotto forma di soldi che ci mettono lo Stato e i
lavoratori iscritti alla previdenza sociale per compensare la
differenza fra l’entità dell’assegno pensionistico e quello che
spetterebbe davvero al pensionato sulla base dei contributi versati.
Autore della provocazione aurea è Mario Baldassarri, economista ed
ex viceministro dell’Economia con il centrodestra, oggi animatore
del centro studi Economia reale.
Proprio
nel momento in cui il tema delle pensioni è di nuovo al centro del
dibattito politico, con il governo che vorrebbe aprire a forme di
flessibilità e l’Inps che studia una sforbiciatina ai trattamenti
retributivi più elevati, lui si è preso la briga di calcolare
proprio quella differenza. E i risultati delle sue proiezioni sono
decisamente più sconvolgenti di quanto si possa immaginare.
Prendiamo
il caso dei tanti baby pensionati. Chi avesse cominciato a riscuotere
un assegno di mille euro a quarant’anni di età con 17 anni di
contributi versati e altri 45 di aspettativa di vita sarebbe stato
omaggiato dallo Stato e dagli altri lavoratori con ben 442.800 euro.
E non è nemmeno il caso più estremo. Le cosiddette pensioni «baby»
sono state eliminate più di vent’anni fa, ma di situazioni simili
a questa ne esistono diverse centinaia di migliaia. Per ogni mille
euro di pensione, 820 vengono letteralmente regalate al pensionato
che si trova in tali condizioni. E se mille euro al mese per
un’aspettativa di vita di 85 anni, pari a quella delle donne
italiane (per gli uomini è intorno agli 80) fruttano a chi è uscito
dal mondo del lavoro a quarant’anni quasi 450 mila euro, per
duemila euro si salirebbe a 885.600 euro, per tremila a un milione
328.400 e così via.
All’opposto
di questa situazione si collocano coloro per i quali la pensione
retributiva, calcolata cioè in rapporto allo stipendio, coincide con
l’assegno contributivo, vale a dire misurato esclusivamente sui
contributi versati. Un punto di equilibrio che nelle proiezioni di
Baldassarri calza addosso a pochissimi: almeno 63 anni di età,
almeno 43 anni di contributi versati e altri 22 anni di aspettativa
di vita. Senza considerare, ovvio, la reversibilità ad eventuali
superstiti. I calcoli attuariali del resto sono spietati: riducendo i
requisiti anagrafici o i versamenti, il metodo retributivo regala
sempre qualcosa. Con questo sistema un lavoratore che si ritirasse a
57 anni con 37 di contributi avrebbe una pensione superiore del 30% a
quella contributiva. Un cinquantacinquenne con 35 anni di versamenti,
addirittura del 40%.
Il
che consente di fare anche il ragionamento inverso, e cioè di
valutare quanti soldi si dovrebbero rimettere decidendo di andare
prima in pensione, come sembrano prevedere alcune proposte in
gestazione, ma senza il regalino del metodo e retributivo. A 60 anni
e con ben 40 di contributi, il taglio sarebbe del 16,8 % A 58, del
26,9 . A 54, del 43,1.
«Ad
oggi», dice Baldassarri sottolineando che dalla riforma Dini che ha
introdotto il metodo di calcolo contributivo sono passati esattamente
vent’anni, «oltre il 90% delle pensioni è basato su retribuzioni
percepite e meno del 10 % è calcolato sulla base dei contribuiti
versati». Non solo. Esistono studi che dimostrano come ancora nel
2050 il 40% degli assegni previdenziali sarà erogato prevalentemente
con il metodo retributivo.
E
questo dà la misura di quella che Baldassarri chiama «una doppia
redistribuzione del reddito socialmente perversa: dai giovani agli
anziani e dai poveri ai ricchi». I giovani pagano le pensioni agli
attuali pensionati e poi, con il metodo contributivo, avranno assegni
da fame. E chi ha avuto uno stipendio alto ha oggi una pensione
altrettanto elevata senza aver pagato i contributi: un regalo enorme
a chi guadagnava tanto, contro un regalino più piccolo a chi
guadagnava meno.
Corriere Della Sera.it
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