Il
mio amico Luciano Lama
Ho
seguito, in alcuni periodi molto da vicino, l’evolversi delle sue
posizioni e del suo ruolo
Quella
che intendo offrire qui è una testimonianza, nel senso che mi
riferirò in sostanza a vicende di cui sono stato direttamente
partecipe con Luciano Lama, ad alcune tappe del suo percorso da cui
trarre elementi per qualche valutazione d’insieme. A Luciano sono
stato molto legato. Ho seguito – in alcuni periodi molto da vicino
– l’evolversi delle sue posizioni e del suo ruolo; abbiamo
vissuto insieme confronti importanti su questioni di fondo per lo
sviluppo democratico del nostro paese; ci siamo, infine, sempre più
avvicinati nel modo di pensare e umanamente. E ciò sia pur
camminando – non è superfluo ricordarlo – per strade diverse.
Lui, fin da giovanissimo, per la strada del Sindacato: divenendo e
sempre restando, quella di Lama, la figura del dirigente sindacale
per eccellenza, appassionato combattente e tenace negoziatore, via
via riconosciuto come dirigente sindacale tra i maggiori del suo
tempo. Io camminavo per un’altra strada, guardando alla sua
esperienza dalla sponda del partito, del suo e mio partito, il PCI,
nello svolgere incarichi politici e funzioni istituzionali. E in due
periodi – dal 1960 a fine ‘62, e poi dal 1975 al ‘79 – fui
chiamato a svolgere l’incarico di responsabile dei rapporti con la
CGIL e con il movimento sindacale nel suo complesso.
Perché
questo è stato l’intreccio tra le vicende dei partiti e dei
sindacati nei decenni repubblicani, nella seconda metà del
Novecento. Quel tempo appare ormai lontano, il contesto complessivo è
radicalmente cambiato ; ma per parlare di Luciano Lama o di rapporti
tra chi rappresentava il mondo sindacale e chi rappresentava il mondo
dei partiti, della politica in senso proprio, occorre un adeguato
livello di comprensione storica, di conoscenza storica. E occorre
pensare all’intera storia del Novecento in Europa, nelle società e
nei paesi che si svilupparono nella democrazia, prima e dopo la
seconda guerra mondiale. Quella storia fu segnata, nelle nazioni via
via più industrializzate, dalla crescita di partiti operai,
socialisti, di sinistra e di sindacati operai, di movimenti e
organizzazioni delle classi lavoratrici.
E
tra gli uni e gli altri vi fu distinzione e al tempo stesso comunanza
di ideali e di fini, e perfino simbiosi : si guardi all’esempio
emblematico del Labour Party e delle Trade Unions in Gran Bretagna
nel corso di tutto il secolo. I rapporti nati così nell’ambito
storico del movimento operaio, poi si articolarono più largamente e
con diversità tra paese e paese nell’Europa democratica. In
Italia, in particolare, fece la sua comparsa un movimento di
lavoratori cristiani, una corrente sindacale cristiana: il sindacato
risorse così, dopo il fascismo, in una pluralistica Confederazione
generale italiana del lavoro, seguita – dopo la rottura di
quell’unità – dalla convivenza e collaborazione tra diverse
confederazioni e tra diverse organizzazioni di categoria, di
orientamento ideale e politico vicino non più solo a quello dei
partiti di sinistra. Ecco, è a tutto questo sfondo storico che
bisogna rifarsi per comprendere il ruolo della Cgil, da Di Vittorio a
Lama,da Santi e Foa a Marianetti e Del Turco, e per comprenderne il
rapporto con il Pci e il Psi e il rapporto con le altre centrali
sindacali.
Fu
un rapporto complesso, anche tormentato: peraltro, nell’insieme, un
punto di forza della democrazia italiana e della causa del progresso
sociale. Fu qualcosa che vissi, nel 1960-62, seguendo il
consolidamento del gruppo dirigente della Cgil formatosi dopo la
morte di Giuseppe Di Vittorio : per la componente comunista, Agostino
Novella, Rinaldo Scheda, Luciano Romagnoli, Luciano Lama segretario
dei metalmeccanici (già dei chimici) e poi di nuovo nella segreteria
confederale. Nel 1970 Lama sarebbe diventato segretario generale
della Cgil, dopo esser stato chiamato al ruolo di vice-segretario
giovanissimo, nel 1947, per una di quelle decisioni dall’alto, di
quelle intuizioni coraggiose che accompagnarono la costruzione dei
nuovi pilastri della democrazia italiana dopo la catastrofe del
fascismo. Per Luciano l’incontro con Di Vittorio, l’insegnamento
di Di Vittorio rimase essenziale : quell’impronta la si ritrova
nelle scelte più difficili degli anni ’70 e dei primi anni ’80,
quelle che potei vivere insieme con lui. Era l’impronta della
battaglia per il lavoro e per i diritti del lavoro e insieme di una
visione alta della democrazia e dell’interesse nazionale come
interesse comune in nome del quale i lavoratori e le loro
organizzazioni dovevano mostrarsi capaci di forti scelte di
responsabilità e solidarietà.
Era
stata quella l’ispirazione del Piano del Lavoro, della Conferenza
nazionale (per me memorabile: ne fui modesto spettatore al Teatro
delle Arti) che lo lanciò nel febbraio 1950, in piena guerra fredda
e contrapposizione politica interna, e che riuscì a superare il
clima della rottura, nel 1948, dell’unità sindacale e a gettare
semi di dialogo con le posizioni più aperte dello stesso governo De
Gasperi. Di Vittorio seppe accompagnare alla denuncia dei bassi
salari e alla necessità di un generale elevamento dei salari, la
disponibilità dei lavoratori ad accollarsi “un sacrificio
supplementare” per contribuire a politiche di sviluppo del reddito
e dell’occupazione, priorità assoluta specie nel Mezzogiorno. La
lezione che a Luciano Lama era venuta da Di Vittorio, di cui fu
autentico continuatore – apprendendo poi non poco anche
dall’intelligenza politica di Agostino Novella – risuonò
nell’impegno della CGIL e del suo segretario contro l’inflazione
: da condurre anche a prezzo di sacrifici da parte dei lavoratori,
negli anni del governo e della maggioranza di solidarietà nazionale.
Bisognava non chiudersi mai, come sindacato, in approcci angustamente
rivendicativi e corporativi ; bisognava schierarsi in prima linea per
il rafforzamento e l’allargamento delle basi di sviluppo
dell’economia italiana, fronteggiando in pari tempo attacchi
destabilizzanti al sistema democratico – e Lama ne provò sulla sua
pelle la virulenza in forme destinate a sfociare nel terrorismo, di
cui fu quindi fermissimo e decisivo avversario. Era vitale per il
sindacato non arroccarsi sulla difensiva, fare i conti con
cambiamenti strutturali incalzanti, esprimere una prospettiva di
rilancio del paese nel contesto europeo e mondiale con proposte e
battaglie conseguenti per nuovi indirizzi generali e per scelte
riformatrici.
Di
qui la strategia dell’Eur e il lancio di un programma di riforme.
Tutto questo non fu facile : per contraddizioni, resistenze, errori.
Lama fu esposto a prove durissime e amare. La prova della sconfitta
alla Fiat per un’occupazione senza sbocco – da lui non
incoraggiata – e per la risposta dei quarantamila in corteo contro
quell’estrema mobilitazione operaia, una risposta che gli fece
comprendere l’errore dell’accordo sul punto unico di contingenza.
Più tardi, tra la fine del 1983 e l’inizio del 1984, la diversa,
non meno aspra prova dello scontro sul taglio della scala mobile. Di
quelle prove furono parte incomprensioni e critiche, anche ingenerose
e pesanti, che gli vennero da dirigenti del PCI. Luciano vi reagì
con autocontrollo e fermezza, nello stile di Di Vittorio, ma
soprattutto non cedendo mai sulle ragioni del movimento sindacale che
facevano tutt’uno con la sua unità e innanzitutto con l’unità
della Cgil. Non cedette, nel marzo 1984, alle pressioni perché
indicesse a nome della sola corrente comunista della Cgil uno
sciopero generale contro il decreto sulla scala mobile : convocò
invece e presiedette una grande manifestazione a Roma, facendone –
piuttosto che il momento culminante di un’insanabile frattura –
il punto di partenza di una ricostruzione dell’unità sindacale,
sulla base di profondi ripensamenti autocritici e di vitali istanze
di cambiamento.
“Mitizzare
certe conquiste del passato” – disse Lama – “rinunciando a
vedere ciò che passa sotto i nostri occhi e che cambia, è errore
grave che riduce il sindacato alla impotenza e gli impedisce una
difesa efficace degli interessi dei lavoratori oggi.” Andrebbero
davvero riletti tanti altri passaggi di quel discorso di Luciano
Lama, di quella straordinaria dimostrazione di coraggio e
lungimiranza che Luciano seppe dare (e Benvenuto testimonierà poi
che a sorpresa, la sera prima, Lama aveva fatto avere a lui e Carniti
il testo del discorso che avrebbe pronunciato ) . L’unità della
Cgil e del movimento sindacale era stata da Lama identificata con
l’autonomia. Anche le posizioni più audaci da lui sostenute in tal
senso, che non convinsero tutti ai vertici della Cgil e del Pci, come
quella sulle incompatibilità tra cariche di partito ed elettive e
incarichi di direzione nei sindacati, Lama le aveva viste come
garanzia del bene supremo dell’unità. Il ruolo politico del
sindacato era, nella concezione più corretta e più ampia, affidata
alla capacità del sindacato stesso di contribuire alla soluzione dei
problemi generali dello sviluppo e progresso democratico del paese.
E
aveva questo respiro il titolo che Luciano Lama si era meritato, e
che meritò ulteriormente nei suoi ultimi anni vissuti, per sua
scelta dopo 42 anni, fuori dal sindacato. Vissuti in modo particolare
– oltre che in Senato – in seno al partito, nel pieno delle sue
più difficili svolte. Se lo era guadagnato sul campo, quel titolo di
“riformista unitario”, l’autodefinizione legittima e
appropriata che egli volle dare di sé. Possiamo solo augurarci che
la sua esperienza e il suo esempio di riformista unitario ispirino
ancora quanti operano in qualsiasi sfera della vita sociale, e
soprattutto, ispirino le giovani generazioni nella loro formazione e
nel loro avanzare, com’è giusto, verso la guida del paese, in
un’Europa che ritrovi se stessa e la sua unità.
Di
Giorgio Napolitano per L' Unità.TV
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