Non sciupate il Pd
Di Walter Veltroni per L' Unità.TV
Questo
partito deve essere se stesso, non mutare pelle e identità. E deve
restare unito, perché se si divide si indebolisce un presidio della
stabilità. La sinistra o è innovazione o non è. Sinistra e
conservazione, un ossimoro
Non
sciupate il Pd. Lo vorrei dire a tutti i protagonisti del dibattito
in corso in questi giorni. I toni si sono fatti aspri e si affaccia
il rischio di scissioni, separazioni dolorose, possibili contraccolpi
per il centrosinistra alle elezioni comunali. Senza il Pd, per come
lo abbiamo immaginato e costruito, l’Italia è esposta al rischio
che stanno correndo le democrazie occidentali. Ci si rende conto di
questo? Ci si rende conto di quello che sta accadendo negli Usa, la
democrazia più forte del mondo, o nella Francia di Mitterrand e De
Gaulle oggi dominata da un partito di estrema destra, o nella
Inghilterra sospesa al filo di un voto dal quale può dipendere la
fine di una certa idea di Europa?
Ci
si rende conto di quello che sta accadendo negli Usa, la democrazia
più forte del mondo, o nella Francia di Mitterrand e De Gaulle oggi
dominata da un partito di estrema destra, o nella Inghilterra sospesa
al filo di un voto dal quale può dipendere la fine di una certa idea
di Europa? O la Spagna senza governo da mesi, avviata verso il
rischio di nuove elezioni, nuova instabilità? Ci si accorge di
quello che accade nei paesi dell’est europeo, molti dei quali
sembrano essere caduti nelle mani di una nuova destra, come quella
polacca o ungherese, determinata a mettere in discussione le stesse
conquista realizzate dalla democrazia, dopo la notte della dittatura
comunista? E il Nord Europa, culla della socialdemocrazia, oggi
attraversata da pulsioni xenofobe un tempo inimmaginabili? Ci si
guardi intorno prima di sfasciare lo strumento essenziale del
riformismo italiano e, se posso dirlo, oggi una delle risorse
fondamentali per il mantenimento della prospettiva europea.
Come
si sa ho creduto tra i primi e sempre alla prospettiva del Partito
Democratico e quando Achille Occhetto (a proposito, auguri per
ottanta anni da vero combattente della democrazia) ebbe il coraggio
di fare il salto decisivo nella storia della sinistra per farne un
partito della sinistra europea fui tra coloro che, insieme a lui, si
schierarono perché nel nome della nuova formazione comparisse la
parola “democratico”. Era, per me, una tappa del processo che
avrebbe dovuto portare alla costituzione di quella unità dei
riformisti che era la condizione di un cambiamento profondo del
paese.
S
i poteva allora immaginare, tutto questo, per la peculiarità feconda
della storia di formazioni politiche del Novecento in cui c’era
stato il coraggio innovatore di Gramsci e di Berlinguer, la
intelligenza strategica di De Gasperi e Moro, la lucida difesa del
pensiero liberale e socialista dei fratelli Rosselli, di Gobetti, di
Nenni, Pertini, Parri, Giolitti. Tutte queste storie, separate e
imprigionate dalle ideologie e dai blocchi, una volta liberate dalla
caduta dei muri, avrebbero dovuto rimuovere l’anomalia di
aggregazioni spurie (nei partiti e nei governi) e ritrovarsi,
finalmente insieme.
Ma
per me, e fu oggetto di discussioni e di divisioni anche nella
sinistra, la nuova formazione avrebbe dovuto avere l’ambizione di
essere di più, una formazione del nuovo mondo, del nuovo millennio.
Non solo la convergenza dei democratici separati del novecento ma una
identità forte e propria. Al Lingotto, quasi dieci anni orsono,
dissi “Per questo nasce il Partito Democratico. Che si chiamerà
così. A indicare un’identità che si identifica con la più grande
conquista del Novecento: la coscienza che le comunità umane possono
esistere e convivere solo con la libertà individuale e collettiva,
con la piena libertà delle idee la libertà di intraprendere. Con la
libertà intrecciata alla giustizia sociale e all’irrinunciabile
tensione all’uguaglianza degli individui, che oggi vuol dire
garanzia delle stesse opportunità per ognuno”
Insomma
non un partito “post”, con lo sguardo rivolto al passato, ma un
partito “ante”, capace di immaginare i valori della sinistra
democratica e riformista nel nuovo millennio, nella società fluida e
globalizzata, parcellizzata e precarizzata. Qualcosa di grande, non
un cambio di insegne e cappello.
Per
questo cercai allora di indicare nella vocazione maggioritaria la
strategia politica e l’ambizione di un partito così. Una sinistra
vecchia e senza ali poteva pensare che l’unico suo destino
fosse quello di allearsi con chiunque pur di governare, perché dava
per scontata il suo essere, per definizione, minoritaria e dunque
costretta a mettere insieme tutto e il contrario di tutto, Mastella e
Rifondazione comunista, per governare , o cercare di farlo.
L’Ulivo,
nato dalla intuizione di Romano Prodi e dal dibattito della sinistra
di quegli anni, si sarebbe dovuto trasformare , dopo l’inaspettato,
da molti, successo alle elezioni del 1996, in un partito politico.
Avrebbe dato basi solide e forti allo straordinario riformismo del
più forte governo della storia repubblicana, con Ciampi all’economia
e Napolitano agli interni, e consentito di superare la precarietà
della condizione dell’appoggio esterno di Rifondazione. Si sono
persi dieci anni. E quando poi, dopo le tragiche elezioni provinciali
del 2007 e i sondaggi che davano le forze del centrosinistra sotto il
venti per cento, si decise di dare finalmente vita al Pd, grazie
anche alla intelligenza politica di Fassino e Rutelli , questo non
poteva che avvenire in un contesto di innovazione, di radicale
innovazione. Per questo al Lingotto dicemmo con Olaf Palme, che la
sinistra “non è contro la ricchezza ma contro la povertà”,
proponemmo di superare vecchie posizioni conservatrici sul piano
istituzionale mettendo l’accento su un nuovo rapporto tra decisione
e controllo nell’esercizio delle funzioni esecutive e parlamentari,
di consolidare il bipolarismo con leggi elettorali che consentissero
un riavvicinamento degli eletti ai cittadini, nel contesto di una
politica più lieve che facesse della “questione morale” uno dei
suoi termini distintivi. Un partito europeo, convinto della necessità
degli Stato Uniti d’ Europa e impegnato, quante ironie sentimmo sul
tema, a costruire una unica organizzazione internazionale “dei
democratici e dei socialisti” che allargasse un campo che
altrimenti, come la storia si è incaricata di dimostrare, restando
fermo si sarebbe ridotto. L’Europa di oggi vede purtroppo una
presenza assai minoritaria delle sinistre al governo.
Noi
ci siamo e pezzi di una politica di governo “radicalmente
innovativa” come postulava l’atto di nascita del Pd si sono
realizzati. Faccio due esempi, legittimamente discussi: la legge sul
jobs act e l’approvazione, finalmente, del riconoscimento delle
unioni civili. Dare una prospettiva di stabilità ai giovani
divorati, nella loro intera vita, dalla precarietà e consentire a
persone che si amano, quali che siano i loro orientamenti sessuali,
di condividere diritti civili sono o no due “cose di sinistra”?
Fermiamoci
su questa parola. Ho già scritto, su questo giornale, che non può e
deve essere considerata una parolaccia, o un oggetto da antiquariato.
La sinistra o è innovazione o non è. Sinistra e conservazione sono
un ossimoro. E il Pd è, non lo si dimentichi mai, un partito forte
della sua identità democratica, cioè la sinistra riformista
del duemila. Che proprio per questo può puntare ad essere
maggioritario, in una democrazia dell’alternanza, una democrazia in
cui il governo decide e il Parlamento esercita la sua funzione di
controllo.
Dunque
la vocazione maggioritaria, che declina politicamente e
programmaticamente, l’identità del riformismo italiano. Ma dire
come si fa spesso con scolastica ovvietà che la contraddizione del
tempo non è tra destra e sinistra non può preludere a soluzioni
pasticciate come le idee vagheggiate, per fortuna Renzi le ha
definite inesistenti, di partiti senza identità. Perché la
divisione, è vero, non è quella del Novecento (più tasse a
sinistra , meno a destra ad esempio) ma la differenza tra destra e
sinistra esiste ancora, eccome. In forme nuove, ma esiste. Come
dimostrano drammaticamente temi come l’ emigrazione o i diritti
civili. Come dimostra la campagna elettorale americana. A chi
sostiene che non esiste più quella differenza suggerirei di
ascoltare i discorsi di Trump, prima che sia troppo tardi. E
attenzione che, se si continua a giocare, il nuovo bipolarismo sarà
giocato sul confine establishment-antiestablishment.
La
sinistra è cambiamento, apertura, giustizia sociale, diritti,
libertà. Non può essere un polveroso armadio di ricordi. Non
sarebbe sinistra. E non può essere annegamento nell’indistinto né
cancellazione di una storia, fatta di persone e idee belle davvero.
Siamo padroni del nostro destino. Se si sciupa il Pd, dopo vedo solo
il baratro del dilagare di forme inimmaginabili di populismo. Se si
divide, con scissioni o minacce di scissioni, si indebolisce un
presidio fondamentale della stabilità, della possibilità di riforme
e di cambiamento, di ancoraggio all’Europa.
Al
tempo stesso il Pd deve essere se stesso, non mutare pelle e
identità. Deve essere un partito aperto, democratico al suo interno,
rispettoso di un pluralismo che sia fatto di idee più che di
correnti e correntine senza anima. Deve recuperare, uno ad uno,
elettori che possono essere delusi e tentati dall’astensionismo. Ci
sono, sarebbe sbagliato non vederlo.
Un’ultima
cosa, sulle primarie. So due cose: che se si partecipa ad esse
bisogna poi accettarne l’esito. E che bisogna presto regolarne lo
svolgimento, come proposi con un disegno di legge presentato
nell’ultima legislatura alla quale ho partecipato. Scandali e
trucchi fanno del male allo strumento delle primarie che sono state,
fin dai tempi di Prodi, il modo attraverso il quale si proponeva, in
coerenza con l’idea di un partito-società, di far scegliere ai
cittadini, e non a ristretti gruppi dirigenti, i candidati ai vertici
istituzionali. Ma ai cittadini, non agli organizzati delle correnti.
Quelli che, se la platea si restringe, rischiano di determinare il
risultato e le scelte.
Il
Pd deve restare unito e credere in se stesso. Se sarà indebolito
sarà compromessa, chissà per quanto, la stessa possibilità di un
governo stabile, europeo e riformista dell’Italia. Chi ha
contribuito a fondarlo e lo ha guidato finché ha potuto farlo in
coerenza con l’impegno preso con milioni di italiani si sente oggi
di rivolgere, a tutti, questo appello alla ragione.
Convinto,
come dovremmo essere tutti, che si debba, lo diceva Leonardo Da
Vinci, fuggire “quello studio la cui risultante opera more insieme
coll’operante d’essa”. Ricordiamoci, tutti, che si tratta non
di noi stessi, ma del futuro di una nazione.
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