13 mar 2016

Chiedi chi era D’Alema

Chiedi chi era D’Alema

Chi non vive Massimo D’Alema come un babau vede solamente un uomo che ha deciso – non si sa quanto consapevolmente – di smettere di fare politica da diversi anni

Mesi fa, in occasione di uno dei ciclici ritorni del dibattito – a sinistra – sulla figura di Pier Paolo Pasolini, sulle colonne de Il Foglio Salvatore Merlo ha avuto modo di formulare un’obiezione culturale a nome di tutti gli under 40, manifesta fin dal titolo: “Se i trentenni non leggono Pasolini un motivo ci sarà – contro la sagra rievocativa tra sessantenni e per sessantenni”.
Oggi che – con un’intervista al Corriere della Sera – Massimo D’Alema è rientrato per un po’ al centro dell’attenzione politica, quell’intervento di Merlo su Pasolini mi è tornato alla mente.
Chi – come chi scrive – ha mosso i primi passi in politica quando ancora la stella di D’Alema restava un riferimento antropologico per i fieri reduci del comunismo italiano, non può non notare come ormai da diversi anni quella stella resti fissa ad illuminare – per una sempre più esigua schiera di amici e nemici – il passato, per quanto prossimo. Chi non ha fatto a tempo ad essere dalemiano o antidalemiano si perde inevitabilmente la dimensione del pathos che un’intervista può suscitare.
Si ha quindi – abbiamo, quindi, noi trentenni, figurarsi i veri giovani – la fastidiosa sensazione, ogniqualvolta Massimo D’Alema fa capolino nel dibattito politico, di assistere (riprendo ancora Merlo su Pasolini) “all’incirca a un dibattito non tra iniziati, ma tra reduci e per reduci, […] una specie di rievocazione storica in costume, come il Palio di Siena”.
A questa sensazione contribuiscono da un lato la fissità della maschera dalemiana, con quel misto di disgusto e superbia e l’ormai rituale carica di critica astiosa nei confronti della leadership di centrosinistra del momento (oggi rivolta a Renzi, come ieri a Prodi, Veltroni o Bersani) e dall’altro le reazioni dei detrattori, che tradiscono il nervosismo di chi si rapporta ad un proprio personale babau.
Ecco, chi non vive Massimo D’Alema come un babau vede solamente un uomo che ha deciso – non si sa quanto consapevolmente – di smettere di fare politica da diversi anni.
L’intervista a Cazzullo, che ricorderemo per il lancio del movimento “Malessere a sinistra” non è che l’ultimo stadio di una separazione dal presente con la quale l’uomo Massimo D’Alema ha voluto “criogenizzare” il politico Massimo D’Alema, ben prima che altri si accingessero a rottamarlo, come a volerne preservare la purezza dalle contaminazioni contemporanee.
Il problema è che gli anni passano, l’esperienza a Palazzo Chigi è terminata nel 2000, quella alla Farnesina nel 2008 e non si rammenta da allora un solo contributo realmente costruttivo e innovativo al centrosinistra (vogliamo considerare tale RedTv?), da parte di quello che resta comunque un indubbio talento della politica italiana.
Mentre Giorgio Napolitano – indebitamente chiamato in causa da D’Alema nella chiosa dell’intervista al Corriere – viveva da protagonista il ritorno di Berlusconi e la sua caduta, l’arrivo dei tecnici al governo, l’allegro naufragio della ditta bersaniana e infine l’ascesa del golden boyMatteo Renzi ed una nuova stagione di riforme, D’Alema affidava la propria parabola politica alla triste esegesi dei retroscena.
Ecco, se quella che – con termine alla moda – viene chiamata “disintermediazione” ha portato al declino dei retroscena e dei “caminetti”, portando i politici a rivolgersi in modo diretto agli elettori e traendo legittimazione da questo stesso dialogo, si farebbe fatica ad immaginare Massimo D’Alema parlare in prima persona agli italiani; per il semplice motivo – azzardiamo – che D’Alema non ha interesse a rivolgersi a loro, a noi.
Di Marco Martorelli per L' Unità.TV


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