Chiedi chi era D’Alema
Chi
non vive Massimo D’Alema come un babau vede solamente un uomo che
ha deciso – non si sa quanto consapevolmente – di smettere di
fare politica da diversi anni
Mesi
fa, in occasione di uno dei ciclici ritorni del dibattito – a
sinistra – sulla figura di Pier Paolo Pasolini, sulle colonne de Il
Foglio Salvatore Merlo ha avuto modo di formulare un’obiezione
culturale a nome di tutti gli under 40, manifesta fin dal titolo: “Se
i trentenni non leggono Pasolini un motivo ci sarà – contro la
sagra rievocativa tra sessantenni e per sessantenni”.
Oggi
che – con un’intervista
al Corriere della Sera –
Massimo D’Alema è rientrato per un po’ al centro dell’attenzione
politica, quell’intervento di Merlo su Pasolini mi è tornato alla
mente.
Chi
– come chi scrive – ha mosso i primi passi in politica quando
ancora la stella di D’Alema restava un riferimento antropologico
per i fieri reduci del comunismo italiano, non può non notare come
ormai da diversi anni quella stella resti fissa ad illuminare – per
una sempre più esigua schiera di amici e nemici – il passato, per
quanto prossimo. Chi non ha fatto a tempo ad essere dalemiano o
antidalemiano si perde inevitabilmente la dimensione del pathos che
un’intervista può suscitare.
Si
ha quindi – abbiamo, quindi, noi trentenni, figurarsi i veri
giovani – la fastidiosa sensazione, ogniqualvolta Massimo D’Alema
fa capolino nel dibattito politico, di assistere (riprendo ancora
Merlo su Pasolini) “all’incirca a un dibattito non tra iniziati,
ma tra reduci e per reduci, […] una specie di rievocazione storica
in costume, come il Palio di Siena”.
A
questa sensazione contribuiscono da un lato la fissità della
maschera dalemiana, con quel misto di disgusto e superbia e l’ormai
rituale carica di critica astiosa nei confronti della leadership di
centrosinistra del momento (oggi rivolta a Renzi, come ieri a Prodi,
Veltroni o Bersani) e dall’altro le reazioni dei detrattori, che
tradiscono il nervosismo di chi si rapporta ad un proprio personale
babau.
Ecco,
chi non vive Massimo D’Alema come un babau vede solamente un uomo
che ha deciso – non si sa quanto consapevolmente – di smettere di
fare politica da diversi anni.
L’intervista
a Cazzullo, che ricorderemo per il lancio del movimento “Malessere
a sinistra” non è che l’ultimo stadio di una separazione dal
presente con la quale l’uomo Massimo D’Alema ha voluto
“criogenizzare” il politico Massimo D’Alema, ben prima che
altri si accingessero a rottamarlo, come a volerne preservare la
purezza dalle contaminazioni contemporanee.
Il
problema è che gli anni passano, l’esperienza a Palazzo Chigi è
terminata nel 2000, quella alla Farnesina nel 2008 e non si rammenta
da allora un solo contributo realmente costruttivo e innovativo al
centrosinistra (vogliamo considerare tale RedTv?), da parte di quello
che resta comunque un indubbio talento della politica italiana.
Mentre
Giorgio Napolitano – indebitamente chiamato in causa da D’Alema
nella chiosa dell’intervista al Corriere – viveva da protagonista
il ritorno di Berlusconi e la sua caduta, l’arrivo dei tecnici al
governo, l’allegro naufragio della ditta bersaniana e infine
l’ascesa del golden boyMatteo Renzi ed una nuova
stagione di riforme, D’Alema affidava la propria parabola politica
alla triste esegesi dei retroscena.
Ecco,
se quella che – con termine alla moda – viene chiamata
“disintermediazione” ha portato al declino dei retroscena e dei
“caminetti”, portando i politici a rivolgersi in modo diretto
agli elettori e traendo legittimazione da questo stesso dialogo, si
farebbe fatica ad immaginare Massimo D’Alema parlare in prima
persona agli italiani; per il semplice motivo – azzardiamo – che
D’Alema non ha interesse a rivolgersi a loro, a noi.
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