In Albania tra gli imam che reclutano per l’Isis: “Così il Corano condanna i non credenti”
GIORDANO
STABILE per La Stampa.it
INVIATO
A CERRIK (ALBANIA)
Sulla tracce di combattenti, fiancheggiatori e predicatori radicali nel villaggio di Cerrik Il meccanico Cili è sorvegliato 24 ore su 24: non è giusto uccidere i cristiani, ma gli atei sì
«I non
credenti sono condannati dal Corano». È l’imam Kreshnik Cili,
meccanico in un’officina nel villaggio di Cerrik, sessanta
chilometri a Sud di Tirana, la porta di accesso alla galassia dei
predicatori jihadisti albanesi che perseguono l’applicazione della
sharia nei Balcani, sulle rive dell’Adriatico. Il suo approccio
alla violenza è, così dice, senza esitazioni: «Non è giusto
uccidere donne, bambini o cristiani, ma i non credenti, gli atei, gli
apostati sono condannati dal Corano».
Sospettato
di far parte della rete di reclutatori di foreign fighters albanesi
andati a combattere in Siria, Cili è sotto massima sorveglianza. Lo
testimoniano il pulmino e l’auto della polizia a due isolati di
distanza. Contro di lui non sono state trovate prove sufficienti
dalla polizia albanese e dunque non è stato incriminato. Raccoglie
le arance assieme a un nipote, da un albero nel cortile sul retro.
Ci
riceve in una specie di ufficio, tra pezzi di ricambio e
lubrificanti. La sua moschea è fra quelle che rifiutano i controlli
della Comunità islamica albanese (Kmsh), rappresentando punti deboli
della rete anti-foreign fighters messa in piedi dal governo di
Tirana. Cili ha la barba lunga e il copricapo distintivi dei
salafiti, ed è circondato da cinque seguaci di diverse età che non
vogliono farsi fotografare. Considerano ogni occidentale un intruso,
se non un nemico. «L’Islam è pace e amore - ripete l’imam, con
un tono di voce in crescita - siamo aggrediti dalle manipolazioni di
politici e giornali che vogliono mettere le persone una contro
l’altra. Creano odio. Qual è il tuo giornale?».

CENTIMETRI
Luoghi
di culto
Cili
nega che in zona ci siano combattenti andati in Siria, o tornati, ma
l’area fra Kavaje e Cerrik è in realtà fra le più a rischio,
sorvegliata dalle unità anti-terrorismo. È un’Albania povera,
lungo il corso del fiume Erzani, case non intonacate, strade sterrate
con dappertutto il cartello «Shitet», in vendita. È qui che
sorgono 200 luoghi di culto islamici - su 727 complessivi - che
sfuggono al controllo del governo. Seguendo il percorso fra le
principali moschee ci si addentra nella galassia dei jihadisti
albanesi.
Con
Al Nusra
Uno
di loro è Ebu Merjen, andato in Siria nel 2012 e tornato alla fine
del 2013. Nato e cresciuto a Shkodra, nel Nord dell’Albania, quasi
al confine con il Kosovo, Ebu Merjen ha militato in «Al Nusra» -
espressione siriana di Al Qaeda - ed è tornato prima che scattasse
la legge anti-terrorismo del 2014 che l’avrebbe condotto in
carcere. Rifiuta di incontrare giornalisti italiani, ma parla con una
collega albanese. «Non ho combattuto - afferma - solo perché non
sono riuscito a procurarmi un’arma». È la tesi che gli ha
permesso di tornare, evitando l’arresto. Ebu Merjen ha avuto
qualche piccolo impiego come autista e in un bar, ma l’ha perso
perché non accettava «di tagliarsi la barba» e soprattutto di
«ingannare i clienti, è proibito dal Corano». Questa
radicalizzazione a tratti ingenua è tipica dei salafiti albanesi,
secondo la giornalista di «Balkan Inside» Aleksandra Bogdani,
specializzata nelle loro storie: «All’inizio degli Anni Novanta,
subito dopo il crollo del comunismo – spiega – abbiamo assistito
a un picco di conversioni che hanno alimentato il flusso di foreign
fighters. Li chiamiamo “wahhabiti in sei mesi”, cioè
dall’ideologia posticcia e affrettata».
Il
marito dell’italiana
Altro
caso è quello di Aldo Cobuzzi, combattente albanese dal nome
italiano, sposo della jihadista italiana Maria Giulia Sergio.
Cresciuto nel villaggio di Lushnje, Albania centrale, è stato
radicalizzato dalla improvvisa conversione della madre dopo il
divorzio. Ora si trova a Raqqa, capitale siriana del Califfato, ed è
fra quelli che l’intelligence italiana deve intercettare a ogni
costo nel caso tentasse di tornare nello Stivale. Secondo una stima
prudente sono circa 40 i foreign fighters già tornati in Italia,
passando quasi sempre attraverso i Balcani. Una decina sono morti in
combattimento, lasciando «almeno 17 bambini orfani e 13 vedove»,
conferma Bogdani.
Il
pentito e il predicatore
Uno
di loro è Ervin Hasanaj, della cittadina di Librazhd. La madre ha
saputo del suo decesso da una delle nuore attraverso un messaggio
WhatsApp dalla Siria: «Ora è morto ed è meglio così per tutti».
La realtà è che Ervin voleva tornare in Albania ed è stato
giustiziato come disertore. La moschea di Librazhd fa parte delle
cinque fuori dalla giurisdizione ufficiale della Kmsh ritenute più
pericolose. Le altre sono quella di Mezeze, a Tirana, Unaza Ere alla
periferia della capitale, le già citate Kavaje a Cerrik e Pogradec,
nel Nord. Della moschea di Leshnica, nella zona di Pogradec, è l’ex
predicatore Almir Daci, legato alla rete degli imam arrestati, Genci
Balla e Bujar Hysa. Daci è apparso con il nome di battaglia Abu
Bilqis Al Albani in un video dell’Isis del giugno 2015, «Honor is
Jihad». Ed è ritenuto responsabile del reclutamento di Ervis Alinji
e Denis Hamzaj, due giovani jihadisti morti in Siria.
Se
durante i quarant’anni di regime comunista quasi tutte le moschee
fuori da Tirana erano state rase al suolo ora è un brulicare i
cantieri. Ci sono i progetti ufficiali, come per la nuova grande
moschea della capitale, da 30 milioni di euro e 20 mila mq, i cui
lavori sono stati inaugurati a maggio alla presenza del presidente
turco Erdogan. Ma ci sono anche cantieri dai finanziamenti poco
chiari. Il Kmsh cerca di fare il possibile. A Kavaje la moschea del
1444 è stata riscostruita in perfetto stile ottomano ed è
controllata dal muftì Besnik Lecini, nel «segno della tolleranza -
spiega - perché sotto il comunismo eravamo tutti perseguitati,
cristiani e musulmani». Alla moschea Mezezit, dove predicava il
reclutatore Hysa, è stato nominato un imam ufficiale legato alla
Kmsh, ma in quella di Unaza Ere il nuovo imam Armand Ali non accetta
controlli né di essere intervistato. Il suo sms è lapidario: «Ho
letto l’articolo del 2 gennaio sulla “Stampa”. Non mi è
piaciuto per niente. Con voi non parlo».

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