Ban Ki-Moon: «L’Italia ha agito bene sulla crisi in Libia e sui rifugiati»
Il segretario generale delle Nazioni Unite a Roma per tenere un discorso al Parlamento. «Il vostro Paese è stato fino ad ora una pietra angolare nei negoziati di pace»
Esplora
il significato del termine: «Se sarà varata una missione di pace
dell’Onu in Libia, la decisione su chi la guiderà dovrà prenderla
il Consiglio di sicurezza. Io posso solo dire che l’Italia ha
svolto un ruolo molto positivo, centrale anche nel favorire l’accordo
per un governo di unità nazionale: un’intesa negoziata tra mille
difficoltà dal mediatore delle Nazioni Unite, Bernardino León».
Seduto su una poltrona di pelle nera con alle spalle, dietro la
vetrata, il panorama dell’East River e dei nuovi grattacieli di
Brooklyn, nella luce abbacinante di un primo pomeriggio Ban Ki-moon
riflette, in questa intervista esclusiva al Corriere della Sera ,
sulle sfide sempre più complesse poste da numerose crisi, dalla
deflagrazione della Siria al caos libico. Nel suo studio in cima
(38esimo piano) al Palazzo di Vetro, il Segretario generale dell’Onu
insiste anche sui risultati fin qui raggiunti: gli obiettivi di
riduzione della povertà nei primi 15 anni del terzo millennio
sostanzialmente raggiunti e le nuove sfide, a partire dalla più
ambiziosa, la « zero hunger challenge »: «Vogliamo sradicare
totalmente la povertà estrema entro il 2030. E possiamo farcela».
Lei
sta per partire per l’Italia e domani — oggi per chi legge —
parlerà a Roma davanti al Parlamento riunito in seduta comune prima
di andare, venerdì, all’Expo di Milano per la Giornata mondiale
dell’alimentazione. E l’Italia celebra il sessantesimo
anniversario della sua adesione all’Onu.
«L’Italia
è stata fin qui la pietra angolare dei processi di pace delle
Nazioni Unite e dell’impegno per i diritti umani. È anche il Paese
occidentale che ha dato il maggior contributo alle attività di
peacekeeping. Avete mandato più di 1.100 uomini in Libano e altrove
e io conto sulla continuazione di questo impegno. L’Italia è stata
anche un campione dello sviluppo dei diritti umani e spero che
prosegua su questa strada, insieme con le altre nazioni, ora che c’è
da concretizzare l’Agenda 2030 con gli obiettivi di sviluppo
sostenibile. Un pianeta accogliente, con al centro il futuro degli
esseri umani, possiamo farcela».
Intanto,
però, le guerre e la povertà alimentano imponenti flussi migratori
dall’Africa e dal Medio Oriente verso l’Europa. Molti,
perseguitati o affamati, attraversano il Mediterraneo. L’Italia è
da tempo in prima linea e spesso si è sentita sola, poco sostenuta
dalla comunità internazionale.
«Ho
molto apprezzato la generosità e la compassione, l’aiuto a queste
persone disperate, offerto dal popolo e dal governo italiano.
Nell’aprile scorso l’ho verificato di persona, andando nel mar
Mediterraneo con il vostro primo ministro, Matteo Renzi. So che tutto
questo è stato, per voi, anche una grossa sfida. Certo, accogliere
questi migranti — migliaia, decine di migliaia di esseri umani —
non è stato facile. Ma io spero che l’Unione europea, e anche
l’Italia, mostrino ancora la loro solidarietà globale. Un discorso
che vale soprattutto per l’Europa, e sono incoraggiato nel vedere i
primi accordi nella Ue sulla riallocazione dei rifugiati nei vari
Paesi. Dobbiamo affrontare la realtà: questo delle migrazioni è un
fenomeno ormai globale. Molti rifugiati fuggono da Paesi in fiamme,
soprattutto la Siria. E la priorità dell’Onu non può che essere
quella di salvare vite umane e chiedere supporto umanitario ai Paesi
membri».
In
Siria la situazione continua a deteriorarsi e oltre alla guerra
civile, dopo l’intervento militare russo, ora c’è anche il
rischio di una specie di guerra a distanza, «per procura», tra
Stati Uniti e Russia. Vede ancora spazi politici?
«La
situazione è difficile, certo. Siamo entrati nell’era del
pericolo. Eppure qui, all’Onu, tutti i leader si sono impegnati con
fiducia a perseguire lo sviluppo sostenibile del pianeta. Poi, certo,
c’è la dura realtà di tutte queste crisi, a cominciare da quella
siriana: più di 200 mila morti, 4 milioni di persone che si sono
rifugiate all’estero e altre 8 milioni in fuga all’interno del
Paese per sottrarsi alle violenze. Quattro anni e mezzo di guerra,
distruzioni immani. Eppure, proprio per questo, sono convinto che la
soluzione non possa essere trovata nelle armi. Credo ancora, e
dobbiamo crederci tutti fermamente, in una soluzione politica. Conto
molto sull’azione del mediatore dell’Onu, Staffan de Mistura,
impegnato in questi giorni in una spola diplomatica Mosca-Washington.
De Mistura ha anche convinto molti dei gruppi in lotta in Siria a
partecipare a quattro gruppi di lavoro per cercare una soluzione
della crisi che non può venire dalle armi: è solo un primo passo,
ma è importante averlo fatto».
Ora
anche la Russia attacca e bombarda. Al fianco di Assad.
«Ho
preso nota dei raid aerei delle forze di Mosca. Col diffondersi del
terrorismo islamico dell’Isis e di Al Nusra, la situazione si è
fatta più complicata. Io premo su tutte le parti impegnate negli
attacchi aerei perché queste missioni militari vengano compiute nel
rispetto delle leggi umanitarie internazionali, senza causare vittime
civili».
Le
fiamme si sono estese di nuovo anche a Israele, pochi giorni dopo la
cerimonia nella quale, qui all’Onu, i palestinesi hanno issato per
la prima volta la loro bandiera.
«Quello
che sta accadendo là è gravissimo. Si sta creando una situazione
insostenibile: un’eruzione di violenza che è causa di grande
allarme. Israeliani e palestinesi devono tornare a discutere senza
ulteriori ritardi. So che è difficile, che ci sono divergenze di
vedute fondamentali. Ma so anche che non ci sono alternative e che
non c’è niente che non possa essere superato con un dialogo
inclusivo. Io ho visto nei giorni scorsi e sto continuando a
contattare i leader del governo israeliano e di quello palestinese.
Ho visto di recente Netanyahu e ho parlato di nuovo con Abbas. Cerco
di riportarli al dialogo».
C’è
molta attesa per un accordo planetario contro l’inquinamento e
l’aumento della temperatura, l’«effetto-serra», che sta
cambiando il clima. Una sorta di nuovo protocollo di Kyoto che
dovrebbe essere siglato alla conferenza sul clima che si terrà a
Parigi fra due mesi. Barack Obama si è impegnato su questo fronte
negli Usa, imponendo limiti all’uso del carbone anche forzando la
mano al suo Parlamento, e spingendo la Cina a una prima intesa in
questo campo. Probabilmente il presidente pensa a questo come a parte
della sua «legacy», l’eredità che lascerà all’America. Credo
valga anche per Lei che guida l’Onu da quasi nove anni: a dicembre
entrerà nell’ultimo anno del suo secondo mandato. E la Conferenza
di Parigi si svolgerà sotto le insegne Onu. Di recente Lei si è
detto preoccupato per la lentezza con cui procede la definizione
degli impegni di molti Paesi. È diventato pessimista?
«No,
sono ancora ragionevolmente ottimista sul fatto che i leader mondiali
entro fine anno riusciranno ad adottare un protocollo universale sui
mutamenti climatici. Abbiamo negoziato per anni senza nemmeno avere
un testo-base sul quale lavorare. Ora quella bozza c’è ed è ben
definita. Ci sono delle lentezze nel processo negoziale che mi
allarmano, è vero, e il tempo che ci resta è poco. Ma io rimango
ottimista perché sulla necessità di intervenire sul clima c’è
ormai un ampio consenso nel mondo: non solo ci sono molti Paesi
convinti, ma si nota anche la determinazione di varie articolazioni
sociali all’interno dei singoli Paesi: gruppi politici, comunità
della società civile, anche entità religiose. Il dato di fondo,
quello che mi pare essenziale e che mi rende ottimista, è che quasi
tutti si sono ormai convinti che il costo dell’inazione è più
alto del costo (che comunque c’è) di un intervento adottato oggi».
Cos’è,
allora, che la rende ancora dubbioso?
«Rimangono
alcune questioni concettuali aperte che non sono irrilevanti. Ad
esempio: chi è responsabile per i processi di deforestazione? Non è
ancora chiaro. E poi non è stato ancora sciolto il nodo dei
finanziamenti del nuovo piano per l’ambiente. Tutti i Paesi si sono
impegnati, in linea di principio, a destinare, entro il 2020, 100
miliardi di dollari all’anno ai Paesi poveri che non hanno risorse
sufficienti per contrastare da soli l’effetto del deterioramento
del clima. Ma al recente vertice di Lima, in Perù, col Fondo
monetario, la Banca mondiale e l’Ocse, abbiamo lavorato alacremente
disegnando una traiettoria anche in questo campo. Una traiettoria che
dovrebbe portarci a mobilitare questi 100 miliardi entro la fine
dell’anno».
Crede
davvero che sia possibile azzerare entro 15 anni la povertà estrema,
cioè il numero delle persone che guadagnano meno di 2 dollari al
giorno? Nei primi 15 anni di questo secolo l’obiettivo di dimezzare
il numero di poveri in queste condizioni estreme è stato raggiunto,
ma il successo è dovuto soprattutto alla rapida crescita economica
in Cina e nel resto dell’Asia. Come sarà possibile raggiungere un
obiettivo ancor più ambizioso quando le economie rallentano anche
nei Paesi emergenti?
«Io
ho fiducia perché si è messa in moto una mobilitazione molto vasta:
non c’è solo l’impegno dei governi, che pure è essenziale. Sono
state fatte consultazioni durate tre anni che hanno coinvolto milioni
di persone. Gli obiettivi sono molti — ben diciassette: da
un’effettiva parità uomo-donna in tutto il mondo a scuole di
qualità per tutti i bambini — perché sono stati definiti da
giovani e anziani, donne e uomini, esponenti politici, leader
religiosi, rappresentanti delle associazioni della società civile.
Milioni di persone che veramente vogliono cambiare il mondo».«Se
sarà varata una missione di pace dell’Onu in Libia, la decisione
su chi la guiderà dovrà prenderla il Consiglio di sicurezza. Io
posso solo dire che l’Italia ha svolto un ruolo molto positivo,
centrale anche nel favorire l’accordo per un governo di unità
nazionale: un’intesa negoziata tra mille difficoltà dal mediatore
delle Nazioni Unite, Bernardino León». Seduto su una poltrona di
pelle nera con alle spalle, dietro la vetrata, il panorama dell’East
River e dei nuovi grattacieli di Brooklyn, nella luce abbacinante di
un primo pomeriggio Ban Ki-moon riflette, in questa intervista
esclusiva al Corriere della Sera , sulle sfide sempre più complesse
poste da numerose crisi, dalla deflagrazione della Siria al caos
libico. Nel suo studio in cima (38esimo piano) al Palazzo di Vetro,
il Segretario generale dell’Onu insiste anche sui risultati fin qui
raggiunti: gli obiettivi di riduzione della povertà nei primi 15
anni del terzo millennio sostanzialmente raggiunti e le nuove sfide,
a partire dalla più ambiziosa, la « zero hunger challenge »:
«Vogliamo sradicare totalmente la povertà estrema entro il 2030. E
possiamo farcela».
Lei
sta per partire per l’Italia e domani — oggi per chi legge —
parlerà a Roma davanti al Parlamento riunito in seduta comune prima
di andare, venerdì, all’Expo di Milano per la Giornata mondiale
dell’alimentazione. E l’Italia celebra il sessantesimo
anniversario della sua adesione all’Onu.
«L’Italia
è stata fin qui la pietra angolare dei processi di pace delle
Nazioni Unite e dell’impegno per i diritti umani. È anche il Paese
occidentale che ha dato il maggior contributo alle attività di
peacekeeping. Avete mandato più di 1.100 uomini in Libano e altrove
e io conto sulla continuazione di questo impegno. L’Italia è stata
anche un campione dello sviluppo dei diritti umani e spero che
prosegua su questa strada, insieme con le altre nazioni, ora che c’è
da concretizzare l’Agenda 2030 con gli obiettivi di sviluppo
sostenibile. Un pianeta accogliente, con al centro il futuro degli
esseri umani, possiamo farcela».
Intanto,
però, le guerre e la povertà alimentano imponenti flussi migratori
dall’Africa e dal Medio Oriente verso l’Europa. Molti,
perseguitati o affamati, attraversano il Mediterraneo. L’Italia è
da tempo in prima linea e spesso si è sentita sola, poco sostenuta
dalla comunità internazionale.
«Ho
molto apprezzato la generosità e la compassione, l’aiuto a queste
persone disperate, offerto dal popolo e dal governo italiano.
Nell’aprile scorso l’ho verificato di persona, andando nel mar
Mediterraneo con il vostro primo ministro, Matteo Renzi. So che tutto
questo è stato, per voi, anche una grossa sfida. Certo, accogliere
questi migranti — migliaia, decine di migliaia di esseri umani —
non è stato facile. Ma io spero che l’Unione europea, e anche
l’Italia, mostrino ancora la loro solidarietà globale. Un discorso
che vale soprattutto per l’Europa, e sono incoraggiato nel vedere i
primi accordi nella Ue sulla riallocazione dei rifugiati nei vari
Paesi. Dobbiamo affrontare la realtà: questo delle migrazioni è un
fenomeno ormai globale. Molti rifugiati fuggono da Paesi in fiamme,
soprattutto la Siria. E la priorità dell’Onu non può che essere
quella di salvare vite umane e chiedere supporto umanitario ai Paesi
membri».
In
Siria la situazione continua a deteriorarsi e oltre alla guerra
civile, dopo l’intervento militare russo, ora c’è anche il
rischio di una specie di guerra a distanza, «per procura», tra
Stati Uniti e Russia. Vede ancora spazi politici?
«La
situazione è difficile, certo. Siamo entrati nell’era del
pericolo. Eppure qui, all’Onu, tutti i leader si sono impegnati con
fiducia a perseguire lo sviluppo sostenibile del pianeta. Poi, certo,
c’è la dura realtà di tutte queste crisi, a cominciare da quella
siriana: più di 200 mila morti, 4 milioni di persone che si sono
rifugiate all’estero e altre 8 milioni in fuga all’interno del
Paese per sottrarsi alle violenze. Quattro anni e mezzo di guerra,
distruzioni immani. Eppure, proprio per questo, sono convinto che la
soluzione non possa essere trovata nelle armi. Credo ancora, e
dobbiamo crederci tutti fermamente, in una soluzione politica. Conto
molto sull’azione del mediatore dell’Onu, Staffan de Mistura,
impegnato in questi giorni in una spola diplomatica Mosca-Washington.
De Mistura ha anche convinto molti dei gruppi in lotta in Siria a
partecipare a quattro gruppi di lavoro per cercare una soluzione
della crisi che non può venire dalle armi: è solo un primo passo,
ma è importante averlo fatto».
Ora
anche la Russia attacca e bombarda. Al fianco di Assad.
«Ho
preso nota dei raid aerei delle forze di Mosca. Col diffondersi del
terrorismo islamico dell’Isis e di Al Nusra, la situazione si è
fatta più complicata. Io premo su tutte le parti impegnate negli
attacchi aerei perché queste missioni militari vengano compiute nel
rispetto delle leggi umanitarie internazionali, senza causare vittime
civili».
Le
fiamme si sono estese di nuovo anche a Israele, pochi giorni dopo la
cerimonia nella quale, qui all’Onu, i palestinesi hanno issato per
la prima volta la loro bandiera.
«Quello
che sta accadendo là è gravissimo. Si sta creando una situazione
insostenibile: un’eruzione di violenza che è causa di grande
allarme. Israeliani e palestinesi devono tornare a discutere senza
ulteriori ritardi. So che è difficile, che ci sono divergenze di
vedute fondamentali. Ma so anche che non ci sono alternative e che
non c’è niente che non possa essere superato con un dialogo
inclusivo. Io ho visto nei giorni scorsi e sto continuando a
contattare i leader del governo israeliano e di quello palestinese.
Ho visto di recente Netanyahu e ho parlato di nuovo con Abbas. Cerco
di riportarli al dialogo».
C’è
molta attesa per un accordo planetario contro l’inquinamento e
l’aumento della temperatura, l’«effetto-serra», che sta
cambiando il clima. Una sorta di nuovo protocollo di Kyoto che
dovrebbe essere siglato alla conferenza sul clima che si terrà a
Parigi fra due mesi. Barack Obama si è impegnato su questo fronte
negli Usa, imponendo limiti all’uso del carbone anche forzando la
mano al suo Parlamento, e spingendo la Cina a una prima intesa in
questo campo. Probabilmente il presidente pensa a questo come a parte
della sua «legacy», l’eredità che lascerà all’America. Credo
valga anche per Lei che guida l’Onu da quasi nove anni: a dicembre
entrerà nell’ultimo anno del suo secondo mandato. E la Conferenza
di Parigi si svolgerà sotto le insegne Onu. Di recente Lei si è
detto preoccupato per la lentezza con cui procede la definizione
degli impegni di molti Paesi. È diventato pessimista?
«No,
sono ancora ragionevolmente ottimista sul fatto che i leader mondiali
entro fine anno riusciranno ad adottare un protocollo universale sui
mutamenti climatici. Abbiamo negoziato per anni senza nemmeno avere
un testo-base sul quale lavorare. Ora quella bozza c’è ed è ben
definita. Ci sono delle lentezze nel processo negoziale che mi
allarmano, è vero, e il tempo che ci resta è poco. Ma io rimango
ottimista perché sulla necessità di intervenire sul clima c’è
ormai un ampio consenso nel mondo: non solo ci sono molti Paesi
convinti, ma si nota anche la determinazione di varie articolazioni
sociali all’interno dei singoli Paesi: gruppi politici, comunità
della società civile, anche entità religiose. Il dato di fondo,
quello che mi pare essenziale e che mi rende ottimista, è che quasi
tutti si sono ormai convinti che il costo dell’inazione è più
alto del costo (che comunque c’è) di un intervento adottato oggi».
Cos’è,
allora, che la rende ancora dubbioso?
«Rimangono
alcune questioni concettuali aperte che non sono irrilevanti. Ad
esempio: chi è responsabile per i processi di deforestazione? Non è
ancora chiaro. E poi non è stato ancora sciolto il nodo dei
finanziamenti del nuovo piano per l’ambiente. Tutti i Paesi si sono
impegnati, in linea di principio, a destinare, entro il 2020, 100
miliardi di dollari all’anno ai Paesi poveri che non hanno risorse
sufficienti per contrastare da soli l’effetto del deterioramento
del clima. Ma al recente vertice di Lima, in Perù, col Fondo
monetario, la Banca mondiale e l’Ocse, abbiamo lavorato alacremente
disegnando una traiettoria anche in questo campo. Una traiettoria che
dovrebbe portarci a mobilitare questi 100 miliardi entro la fine
dell’anno».
Crede
davvero che sia possibile azzerare entro 15 anni la povertà estrema,
cioè il numero delle persone che guadagnano meno di 2 dollari al
giorno? Nei primi 15 anni di questo secolo l’obiettivo di dimezzare
il numero di poveri in queste condizioni estreme è stato raggiunto,
ma il successo è dovuto soprattutto alla rapida crescita economica
in Cina e nel resto dell’Asia. Come sarà possibile raggiungere un
obiettivo ancor più ambizioso quando le economie rallentano anche
nei Paesi emergenti?
«Io
ho fiducia perché si è messa in moto una mobilitazione molto vasta:
non c’è solo l’impegno dei governi, che pure è essenziale. Sono
state fatte consultazioni durate tre anni che hanno coinvolto milioni
di persone. Gli obiettivi sono molti — ben diciassette: da
un’effettiva parità uomo-donna in tutto il mondo a scuole di
qualità per tutti i bambini — perché sono stati definiti da
giovani e anziani, donne e uomini, esponenti politici, leader
religiosi, rappresentanti delle associazioni della società civile.
Milioni di persone che veramente vogliono cambiare il mondo».
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