Se
la destra non è più
la casa dei moderati
Difficile trovare a breve un federatore che sappia mettere assieme le diverse anime. Oggi la Lega di Salvini, vincitrice delle Regionali, si presenta come la variante italiana del Front National di Marine Le Pen.
Di
Paolo Franchi per IL Corriere Della Sera.it
Forse
non sarà ancora a lungo così. Ma intanto il voto delle Regionali
segnala una realtà che, alla vigilia, quando si discuteva solo
dell’entità del cappotto che il Pd avrebbe inflitto agli
avversari, non era affatto scontata. Il centrodestra così come lo
abbiamo conosciuto per vent’anni e passa non c’è più, e su
questo non ci piove. La destra, però, è sopravvissuta al declino di
Silvio Berlusconi, per via del successo ancora largamente da indagare
della Lega, si capisce; ma anche perché (a dimostrazione del fatto
che negli orientamenti politici e negli stessi comportamenti di voto
c’è ancora qualcosa di più profondo e radicato di quanto
immaginino tanti strateghi da farmacia travestiti da grandi
comunicatori) i suoi elettori cosiddetti moderati si sono rivelati
sordi ai richiami del «partito della nazione» renziano, qualsiasi
cosa esso sia.
Illustr.
di Solinas
Illustr.
di Solinas
Più
precisamente. Di destre ne sono sopravvissute varie, alcune (Forza
Italia, i seguaci di Angelino Alfano) per il rotto della cuffia,
altre (la Lega) trionfalmente. Si tratta di forze molto diverse, in
certi casi addirittura antagonistiche tra loro: tutto sta a capire se
saranno in grado di trovare chi sia capace di federarle e di dare
loro qualcosa di simile a una piattaforma comune, senza di che il
processo di disintegrazione, tamponato a sorpresa nelle elezioni
regionali, si riaprirebbe irreversibilmente.
Ci
riuscì, vent’anni fa, Berlusconi, creando ex novo tra le macerie
di Tangentopoli un partito, il suo, e stringendo alleanza con due
destre tra loro incompatibili, la Lega al Nord e il Movimento sociale
(non ancora Alleanza nazionale) al Sud. Ma i miracoli non si ripetono
a piacimento e, soprattutto, i Berlusconi non si trovano sotto un
cavolo. Di un possibile federatore non si intravedono, a l momento, l
e fattezze. E il solo vero leader su quella piazza, Matteo Salvini,
unico vincitore accertato di questa tornata elettorale, tutto può e
vuole fare fuorché federare uomini e partiti cui al massimo riserva,
nei suoi disegni, il compito dei portatori d’acqua. Tanto più
adesso che la Lega è fragorosamente fuoriuscita dalla sua originaria
dimensione nordista, si rappresenta, ed è rappresentata, come la
variante italiana di madame Le Pen; e, rispetto alla presidente del
Front National, ha pure il vantaggio di non trovarsi di fronte alcun
Sarkozy in grado di sbarrargli il passo cavalcando i suoi cavalli di
battaglia per contendergli sul campo gli elettori.
Di
qui al giorno delle elezioni politiche, specie se si arriverà al
2018, possono naturalmente succedere, in Italia e fuori, tante cose.
È difficile, però, immaginarne qualcuna in grado, a destra, di
tagliare l’erba sotto i piedi alla Lega e di ridare fiato a un
centrodestra inteso a qualsiasi titolo come la «Casa dei moderati»,
non fosse altro perché dei «moderati », chiunque essi siano, si
sono da un pezzo smarrite le tracce. Così che oggi è lecito
supporre che, in assenza di clamorose novità, a contendersi il ruolo
di competitor di Renzi nel ballottaggio, se al ballottaggio si andrà,
saranno Salvini (o una destra comunque fortemente «salvinizzata »)
e il Movimento 5 Stelle: due forze politicamente agli antipodi,
almeno all’apparenza, ma entrambe dichiaratamente e risolutamente
antisistema, che per vie molto diverse sono state capaci prima di
guadagnare la scena, poi di insediarvisi in forma stabile (sempre che
la parola stabilità abbia ancora un senso).
Non
è necessario essere particolarmente maliziosi per immaginare che a
Renzi una simile prospettiva non dispiacerebbe poi troppo: con
avversari di questo tipo, che per loro natura coalizzano contro se
stessi un fronte assai più ampio di quello che riescono a mettere
insieme, può supporre, il Partito democratico si ritroverebbe in
partenza la vittoria in tasca, magari superando il muro del quaranta
per cento già al primo turno, anche se la sua prova al governo si
rivelasse inferiore alle promesse e alle attese, se i suoi problemi
di identità e i suoi aspri contrasti interni rimanessero irrisolti.
Se davvero facesse questo ragionamento un po’ cinico, o più
semplicemente se fosse questo il suo retropensiero, non ci sarebbe
poi da indignarsi o da dargli torto in via pregiudiziale. Ma da
consigliargli, del tutto spassionatamente, di stare molto attento,
sì.
Perché
viviamo un tempo in cui per mille motivi ciò che ieri era scontato
non lo è più, e anche in politica leggi a lungo considerate bronzee
rischiano di finire in frantumi. In fondo, dovrebbe essere Renzi il
primo a saperlo: se non fosse così, non sarebbe il leader del Pd e
il capo del governo.
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