5 giu 2015

Se la destra non è più la casa dei moderati

Se la destra non è più
la casa dei moderati

Difficile trovare a breve un federatore che sappia mettere assieme le diverse anime. Oggi la Lega di Salvini, vincitrice delle Regionali, si presenta come la variante italiana del Front National di Marine Le Pen.


Di Paolo Franchi per IL Corriere Della Sera.it

Forse non sarà ancora a lungo così. Ma intanto il voto delle Regionali segnala una realtà che, alla vigilia, quando si discuteva solo dell’entità del cappotto che il Pd avrebbe inflitto agli avversari, non era affatto scontata. Il centrodestra così come lo abbiamo conosciuto per vent’anni e passa non c’è più, e su questo non ci piove. La destra, però, è sopravvissuta al declino di Silvio Berlusconi, per via del successo ancora largamente da indagare della Lega, si capisce; ma anche perché (a dimostrazione del fatto che negli orientamenti politici e negli stessi comportamenti di voto c’è ancora qualcosa di più profondo e radicato di quanto immaginino tanti strateghi da farmacia travestiti da grandi comunicatori) i suoi elettori cosiddetti moderati si sono rivelati sordi ai richiami del «partito della nazione» renziano, qualsiasi cosa esso sia.
Illustr. di Solinas
Illustr. di Solinas
Più precisamente. Di destre ne sono sopravvissute varie, alcune (Forza Italia, i seguaci di Angelino Alfano) per il rotto della cuffia, altre (la Lega) trionfalmente. Si tratta di forze molto diverse, in certi casi addirittura antagonistiche tra loro: tutto sta a capire se saranno in grado di trovare chi sia capace di federarle e di dare loro qualcosa di simile a una piattaforma comune, senza di che il processo di disintegrazione, tamponato a sorpresa nelle elezioni regionali, si riaprirebbe irreversibilmente.
Ci riuscì, vent’anni fa, Berlusconi, creando ex novo tra le macerie di Tangentopoli un partito, il suo, e stringendo alleanza con due destre tra loro incompatibili, la Lega al Nord e il Movimento sociale (non ancora Alleanza nazionale) al Sud. Ma i miracoli non si ripetono a piacimento e, soprattutto, i Berlusconi non si trovano sotto un cavolo. Di un possibile federatore non si intravedono, a l momento, l e fattezze. E il solo vero leader su quella piazza, Matteo Salvini, unico vincitore accertato di questa tornata elettorale, tutto può e vuole fare fuorché federare uomini e partiti cui al massimo riserva, nei suoi disegni, il compito dei portatori d’acqua. Tanto più adesso che la Lega è fragorosamente fuoriuscita dalla sua originaria dimensione nordista, si rappresenta, ed è rappresentata, come la variante italiana di madame Le Pen; e, rispetto alla presidente del Front National, ha pure il vantaggio di non trovarsi di fronte alcun Sarkozy in grado di sbarrargli il passo cavalcando i suoi cavalli di battaglia per contendergli sul campo gli elettori.
Di qui al giorno delle elezioni politiche, specie se si arriverà al 2018, possono naturalmente succedere, in Italia e fuori, tante cose. È difficile, però, immaginarne qualcuna in grado, a destra, di tagliare l’erba sotto i piedi alla Lega e di ridare fiato a un centrodestra inteso a qualsiasi titolo come la «Casa dei moderati», non fosse altro perché dei «moderati », chiunque essi siano, si sono da un pezzo smarrite le tracce. Così che oggi è lecito supporre che, in assenza di clamorose novità, a contendersi il ruolo di competitor di Renzi nel ballottaggio, se al ballottaggio si andrà, saranno Salvini (o una destra comunque fortemente «salvinizzata ») e il Movimento 5 Stelle: due forze politicamente agli antipodi, almeno all’apparenza, ma entrambe dichiaratamente e risolutamente antisistema, che per vie molto diverse sono state capaci prima di guadagnare la scena, poi di insediarvisi in forma stabile (sempre che la parola stabilità abbia ancora un senso).
Non è necessario essere particolarmente maliziosi per immaginare che a Renzi una simile prospettiva non dispiacerebbe poi troppo: con avversari di questo tipo, che per loro natura coalizzano contro se stessi un fronte assai più ampio di quello che riescono a mettere insieme, può supporre, il Partito democratico si ritroverebbe in partenza la vittoria in tasca, magari superando il muro del quaranta per cento già al primo turno, anche se la sua prova al governo si rivelasse inferiore alle promesse e alle attese, se i suoi problemi di identità e i suoi aspri contrasti interni rimanessero irrisolti. Se davvero facesse questo ragionamento un po’ cinico, o più semplicemente se fosse questo il suo retropensiero, non ci sarebbe poi da indignarsi o da dargli torto in via pregiudiziale. Ma da consigliargli, del tutto spassionatamente, di stare molto attento, sì.
Perché viviamo un tempo in cui per mille motivi ciò che ieri era scontato non lo è più, e anche in politica leggi a lungo considerate bronzee rischiano di finire in frantumi. In fondo, dovrebbe essere Renzi il primo a saperlo: se non fosse così, non sarebbe il leader del Pd e il capo del governo.


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