Il pensionato d’oro (da record): assegno mensile di 91 mila euro
Il confronto Il pagamento per l’ex manager delle tlc equivale a 107 pensioni al minimo
Di Gian Antonio Stella per IL Corriere Della Sera.it
Almeno
54 mila euro in più al mese: ecco quanto riceverebbe Mauro
Sentinelli, il recordman delle «pensioni d’oro», rispetto a ciò
che versò di contributi. Per capirci: l’equivalente di 107 (cento
sette) pensioni minime. Invece dei 91.473 lordi mensili ne avrebbe
circa 37 mila lordi. Più che sufficienti, pagate le tasse, a vivere
piuttosto bene.
Chiariamo
subito: l’ex direttore generale di Tim, in pensione da dieci anni
dopo una vita passata tutta o quasi nell’azienda telefonica, non è
un ladro. È, questo sì, uno scassinatore dei conti pubblici. Ma
«solo» per avere approfittato fino in fondo delle leggi che
c’erano. Di più: su quei 91 mila euro mensili ne paga 14.536 come
contributo di solidarietà. Un sesto del vitalizio. Ma comunque
stratosferico.
Immaginiamo
pure che viva come un’ingiustizia l’essere sempre tirato in ballo
lui, il recordman, mentre un velo finisce per coprire tanti altri che
incassano pensioni magari un po’ più basse ma altrettanto
astronomiche e squilibrate. E più ancora che gli dia fastidio il
velo che copre chi quelle regole insensate le ideò, le propose, le
votò. Basti ricordare, tra gli altri, i vitalizi parlamentari: un
euro di versamenti in entrata, undici in uscita. Per non dire di
altri (come i militari dei quali l’Inps ha recentemente resi noti i
numeri) che ricevono in media il doppio di quanto versato. Pensioni
infinitamente più modeste, certo. Ma i conti non tornano lo stesso.
Come
non tornano i conti, scrive il settimanale online «il foglietto»
edito dal sindacato di base USI-Ricerca, alla Corte costituzionale.
Dove i 22 giudici a riposo e i 9 coniugi superstiti, come si ricava
dal bilancio messo in rete dalla stessa Consulta, «percepiscono una
pensione da 16.500 euro lordi al mese». Molti più di quanti ne
avevano versati. Osservazione ovvia: quanto può incidere, nel
valutare i ricorsi sui «diritti acquisiti», il retropensiero di
ogni magistrato, per quanto disinteressato sia, sul proprio futuro
pensionistico?
Detto
questo, il «caso Sentinelli» resta sbalorditivo. Tanto più che il
nostro gode di quel trattamento extralusso dal 2006, nove anni e
mezzo fa, nonostante non sia poi così vecchio. Nato nel ‘47, è
più giovane di 12 milioni di italiani. E ha due anni in meno, per
esempio, di Eddy Reja che ha appena salvato l’Atalanta e gioca
ancora le partitelle delle squadre che allena.
Bene:
stando ai dati Inps, recuperati a dispetto del rifiuto dei vertici di
fornire dettagli sui singoli, lo sfacciato sbilanciamento fra sistema
retributivo e contributivo emerge nel caso del dirigente telefonico
in modo abbagliante. Dicono le tabelle che negli ultimi sei anni di
carriera, da quando fu nominato direttore generale ai primi di luglio
2009 (l’azienda sottolineò che lo premiava perché gli doveva
«molte delle innovazioni nella telefonia mobile come i contratti
family e la carta prepagata») fino al 31 dicembre 2005, Mauro
Sentinelli guadagnò moltissimo: oltre 23 milioni di euro lorde. E
moltissimo (tasse a parte: una tombola) versò di contributi: oltre 7
milioni e mezzo.
Il
guaio per i conti pubblici è che quei soldi, con le regole
esistenti, gli sono stati restituiti con la pensione, al lordo, in
soli sette anni. Per capirci: alla fine del 2012 li aveva grossomodo
già recuperati. E se vivrà quanto un italiano medio, come
ovviamente gli auguriamo, potrà riceverne in totale, di milioni
lordi, ventidue.
Quanto
al passato, guadagnava molto ma molto meno. E versò anche molto ma
molto meno. Nell’anno della riforma Dini, quando già andava per la
cinquantina e aveva percorso gran parte della vita professionale,
pagava per il suo futuro, in un anno, la metà di quanto prende oggi
in un mese. Insensato.
Proviamo
a fare una simulazione? Prendiamo un «quadro» di oggi con due
decenni di anzianità e inchiodato alle regole del contributivo. I
suoi ipotetici 100 mila euro attuali rischiano di diventare, quando
potrà andare a riposo tra una quindicina abbondante di anni, meno
della metà.
A farla corta, se il vitalizio dell’ex dirigente Telecom fosse basato sui contributi che versò, avrebbe come dicevamo non 91 mila euro e mezzo al mese ma, appunto, 37 mila. Anzi, un calcolo più restrittivo messo a punto l’anno scorso parlava addirittura di 25 mila. Il che farebbe supporre un bonus supplementare mensile di 66 mila euro.
Tema:
cosa dovrebbe fare lo Stato? Amputargli di netto la pensione?
Chiedergli indietro i soldi ricevuti fino ad oggi? E se poi ricorre
alla Corte costituzionale chiedendo che venga rispettato il
contratto, giusto o sbagliato che fosse, che aveva firmato con lui?
Non
è facile uscirne. Tanto più che, come spiegano vari osservatori tra
cui Giuliano Cazzola e Maurizio Sacconi, chi se n’è andato col
retributivo e si trova oggi in una situazione che appare di
privilegio e dunque a rischio, non ha più la possibilità di
rimediare «operosamente», andando in pensione più tardi o
facendosi un vitalizio alternativo, al cambio delle regole. Lo stesso
Sentinelli potrebbe dire: se avessi saputo che finiva così avrei
potuto investire quei milioni versati negli ultimi anni in una
assicurazione privata, magari guadagnandoci... E la stessa cosa vale
per molti altri.
Tito Boeri, il presidente dell’Inps, lo sa. E l’ha già detto: un ricalcolo delle pensioni (a parte la difficoltà di conteggiare una miriade di casi) con l’amputazione secca e brutale dei vitalizi più alti, è di fatto impossibile. Di più: quell’amputazione forse vendicherebbe certe ingiustizie ma sarebbe a sua volta ingiusta e potrebbe perfino, dicono i tecnici, avere effetti negativi sull’insieme. Probabilmente si finirà con una revisione a scaglioni progressivi. Più dura per chi riceve moltissimo più di quanto aveva versato, più morbida per i vitalizi meno scandalosi e offensivi nei confronti di chi fatica ad arrivare a fine mese.
Una cosa è sicura: per quanto possano essere limitati i vantaggi per le pubbliche casse (neppure requisendo ogni centesimo delle pensioni più spropositate si metterebbe una toppa ai buchi nei conti pubblici) nessun progetto di riforma che tocchi tutti i cittadini potrà mai essere portato avanti senza toccare «prima» i megavitalizi come quelli di cui parliamo. Non è solo una questione di soldi. È che non possiamo scaricare sui nostri figli e nipoti il peso di «diritti acquisiti» abnormi dovuti a leggine cervellotiche. Anche loro hanno un diritto acquisito dalla nascita: non essere discriminati rispetto ai genitori e ai nonni.
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