Il
nuovo Erasmus dei laureati
Gli italiani sono i più bravi d’Europa
di Antonella De Gregorio per IL Cvorriere Della Sera.it
La metà di chi fa il tirocinio all’estero viene assunto. Il presidente di Almalaurea: «Abbiamo dei licei che li preparano benissimo»
Esplora
il significato del termine: Né choosy, né in fuga. I ragazzi
italiani che si sistemano all’estero sono semplicemente bravi. I 70
mila laureati che ogni anno partono in cerca di condizioni migliori,
di paga o di vita, sanno farsi valere e con poco sforzo si
conquistano la stima dei datori di lavoro (e una carriera). La
conferma in un’analisi della Commissione europea sull’impatto di
«Erasmus+», ultimo nato e molto amato tra i programmi per la
mobilità che, erede dello storico Erasmus (nato per agevolare
esperienze di studio all’estero durante gli anni dell’università),
consente scambi ed esperienze di lavoro, generalmente della durata di
sei mesi, a giovani lavoratori, volontari, insegnanti
l’Erasmus»Mogherini
e la tesi sull’Islam
Le
offerte delle imprese
Un
programma che sembra far bene soprattutto agli italiani: 6 mila
quelli impegnati in attività di tirocinio, secondi solo ai turchi
per numero di candidature presentate. Il focus della Ue sottolinea
che per i giovani del Sud dell’Europa si riducono i tempi di
disoccupazione e che gli italiani sono quelli con gli esiti migliori:
dopo il tirocinio, il 51% riceve un’offerta di lavoro dall’impresa
che l’ha ospitato. La media europea è del 30%. Dati che il
direttore dell’Agenzia Nazionale Erasmus+ Indire, Flaminio Galli,
commenta in chiave politica: «Viviamo un momento storico in cui
torna la tentazione di alzare frontiere e steccati, mentre la
mobilità degli studenti e dei docenti rafforza l’identità comune
europea, migliora la preparazione individuale e favorisce
l’occupazione».
Curiosi
e determinati
Ivano
Dionigi, ex rettore dell’Alma Mater di Bologna e da ottobre
presidente di Almalaurea, li legge come conferma di un fenomeno tutto
italiano: un flusso netto di capitale umano altamente qualificato,
fortemente sbilanciato in una sola direzione. Lo scambio non è più
scambio, insomma, ma drenaggio. «Una perdita secca di risorse umane
per il Paese», dice. Fuga, appunto, non interazione, come invece
sarebbe nelle intenzioni della Ue. «Che i nostri ragazzi siano
apprezzati e si facciano valere mi allieta, non mi sorprende e mi fa
arrabbiare — dice — perché il Paese è maledettamente noncurante
di loro». Sul perché vengano premiati non ha dubbi: «Sono più
bravi». E lo sono perché «in Italia abbiamo i licei migliori del
mondo, e i nostri studenti sono più flessibili». Abbiamo meno
laboratori e risorse, ma più linguaggi, «combiniamo meglio le due
culture, le humanities e le scienze». L’analisi della Ue mette in
luce anche alcune caratteristiche psicologiche: i candidati dell’area
Europa del Sud, più dei coetanei di altre aree geografiche e più di
quelli che non hanno intenzione di partire, mostrano più marcati
tratti di personalità in aree ritenute importanti dai datori di
lavoro: fiducia in se stessi, serenità, determinazione, energia,
curiosità.
Emigrazione
di cervelli
Ma
se è consolatorio riconoscere le peculiarità del nostro sistema
formativo, che fa sì che — riassume Dionigi — «la soluzione
tecnica a un problema un imprenditore magari la chiede a un tedesco,
ma per stendere la relazione preferisce un italiano», resta il fatto
che l’emigrazione dei nostri giovani professionisti è un buco
nero. E se lo studio e il lavoro all’estero diventano il destino
finale del percorso formativo, anziché rappresentarne una tappa, è
perché fuori dai confini si trovano servizi migliori e aiuti allo
studio: «I ragazzi imparano le lingue, non pagano le tasse e trovano
lavoro», sintetizza Dionigi. Che una soluzione ce l’ha: «Iniziamo
con il garantire il primo triennio di studi universitari gratuito per
tutti». Con l’obbligo di frequentare e di sostenere gli esami nei
tempi previsti. Poi, certo, serve un mercato del lavoro più equo,
dove tutti abbiano le giuste tutele, serve debellare nepotismo e
baronie. Poi si potrà andare all’estero «per completare gli studi
e perfezionarsi, trovare un primo o magari un secondo lavoro e, alla
fine, tornare in patria, per mettere a frutto le esperienze
accumulate e occupare posizioni di maggiore vantaggio e
responsabilità».Né choosy, né in fuga. I ragazzi italiani che si
sistemano all’estero sono semplicemente bravi. I 70 mila laureati
che ogni anno partono in cerca di condizioni migliori, di paga o di
vita, sanno farsi valere e con poco sforzo si conquistano la stima
dei datori di lavoro (e una carriera). La conferma in un’analisi
della Commissione europea sull’impatto di «Erasmus+», ultimo nato
e molto amato tra i programmi per la mobilità che, erede dello
storico Erasmus (nato per agevolare esperienze di studio all’estero
durante gli anni dell’università), consente scambi ed esperienze
di lavoro, generalmente della durata di sei mesi, a giovani
lavoratori, volontari, insegnanti.
«Noi abbiamo fatto l’Erasmus»Mogherini e la tesi sull’Islam
Le
offerte delle imprese
Un
programma che sembra far bene soprattutto agli italiani: 6 mila
quelli impegnati in attività di tirocinio, secondi solo ai turchi
per numero di candidature presentate. Il focus della Ue sottolinea
che per i giovani del Sud dell’Europa si riducono i tempi di
disoccupazione e che gli italiani sono quelli con gli esiti migliori:
dopo il tirocinio, il 51% riceve un’offerta di lavoro dall’impresa
che l’ha ospitato. La media europea è del 30%. Dati che il
direttore dell’Agenzia Nazionale Erasmus+ Indire, Flaminio Galli,
commenta in chiave politica: «Viviamo un momento storico in cui
torna la tentazione di alzare frontiere e steccati, mentre la
mobilità degli studenti e dei docenti rafforza l’identità comune
europea, migliora la preparazione individuale e favorisce
l’occupazione».
Curiosi
e determinati
Ivano
Dionigi, ex rettore dell’Alma Mater di Bologna e da ottobre
presidente di Almalaurea, li legge come conferma di un fenomeno tutto
italiano: un flusso netto di capitale umano altamente qualificato,
fortemente sbilanciato in una sola direzione. Lo scambio non è più
scambio, insomma, ma drenaggio. «Una perdita secca di risorse umane
per il Paese», dice. Fuga, appunto, non interazione, come invece
sarebbe nelle intenzioni della Ue. «Che i nostri ragazzi siano
apprezzati e si facciano valere mi allieta, non mi sorprende e mi fa
arrabbiare — dice — perché il Paese è maledettamente noncurante
di loro». Sul perché vengano premiati non ha dubbi: «Sono più
bravi». E lo sono perché «in Italia abbiamo i licei migliori del
mondo, e i nostri studenti sono più flessibili». Abbiamo meno
laboratori e risorse, ma più linguaggi, «combiniamo meglio le due
culture, le humanities e le scienze». L’analisi della Ue mette in
luce anche alcune caratteristiche psicologiche: i candidati dell’area
Europa del Sud, più dei coetanei di altre aree geografiche e più di
quelli che non hanno intenzione di partire, mostrano più marcati
tratti di personalità in aree ritenute importanti dai datori di
lavoro: fiducia in se stessi, serenità, determinazione, energia,
curiosità.
Emigrazione
di cervelli
Ma
se è consolatorio riconoscere le peculiarità del nostro sistema
formativo, che fa sì che — riassume Dionigi — «la soluzione
tecnica a un problema un imprenditore magari la chiede a un tedesco,
ma per stendere la relazione preferisce un italiano», resta il fatto
che l’emigrazione dei nostri giovani professionisti è un buco
nero. E se lo studio e il lavoro all’estero diventano il destino
finale del percorso formativo, anziché rappresentarne una tappa, è
perché fuori dai confini si trovano servizi migliori e aiuti allo
studio: «I ragazzi imparano le lingue, non pagano le tasse e trovano
lavoro», sintetizza Dionigi. Che una soluzione ce l’ha: «Iniziamo
con il garantire il primo triennio di studi universitari gratuito per
tutti». Con l’obbligo di frequentare e di sostenere gli esami nei
tempi previsti. Poi, certo, serve un mercato del lavoro più equo,
dove tutti abbiano le giuste tutele, serve debellare nepotismo e
baronie. Poi si potrà andare all’estero «per completare gli studi
e perfezionarsi, trovare un primo o magari un secondo lavoro e, alla
fine, tornare in patria, per mettere a frutto le esperienze
accumulate e occupare posizioni di maggiore vantaggio e
responsabilità».
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