La
sconfitta più dura
che azzera il Pd romano
L’impresa
era di quelle impossibili: rimontare una sconfitta già scritta dalla
caduta di Ignazio Marino
Inutile
cercare scuse. Il risultato di Roma per il Pd è uno schiaffo
violento. Neppure la sconfitta contro Alemanno nel 2008 era stata
così dura. Virginia Raggi ha stravinto, schiantando il Pd, malgrado
Roberto Giachetti abbia combattuto con straordinario coraggio. Che
Roma fosse persa era una facile previsione e va dato atto al
candidato democratico di aver accettato una sfida che avrebbe fatto
tremare chiunque. La sconfitta brucia, è una ferita aperta nel corpo
del Pd che Roberto Giachetti non è riuscito a sanare, malgrado un
impegno generoso e serio.
L’impresa
era di quelle impossibili: rimontare una sconfitta già scritta dalla
caduta di Ignazio Marino. Malgrado il sindaco non c’entrasse nulla
con Mafia Capitale, il coinvolgimento di numerosi esponenti del Pd
nella melma romana ha costruito una narrazione devastante cui si è
aggiunta la perdita di un rapporto con la città e l’incapacità di
frenare un degrado che pesa sulla vita quotidiana dei romani . Il Pd
è apparso come il principale responsabile di tutto questo e la
vigorosa azione di rinnovamento intrapresa non è riuscita a
convincere gli elettori. Per troppo tempo il partito democratico
romano è stato percepito come un coacervo di microcorrenti e capi
bastone interessati solo alla sopravvivenza dei loro spazi di potere.
E
la giunta Marino non è stata in grado di creare un rapporto empatico
con la sofferenza dei cittadini. Il modo in cui è caduta ha inoltre
tracciato un solco tra i democratici. L’elettorato romano era
assetato di discontinuità, senza guardare né alla qualità dei
candidati, né all’idea che proponevano di Roma. Era il terreno
perfetto per la rappresentazione di cui il M5S ha bisogno per
crescere: da una parte loro, i puri, gli onesti, dall’altro la
casta, una classe politica percepita dai cittadini distante dalla
loro vita quotidiana, un’oligarchia che parla solo a sé stessa.
Un
voto contro, che va rispettato e compreso, perché esprime un disagio
reale, alimentato da una crisi economica che ha picchiato duro sulle
periferie abbandonate e dal disincanto che colpisce i cosiddetti ceti
medi riflessivi. E che riflette una tendenza non solo italiana. Non
più una contrapposizione tra blocchi sociali e coalizioni politiche,
ma una opposizione del basso verso l’alto. In questo senso il voto
romano è un segnale d’allarme generale: il Pd è apparso non come
la soluzione, ma il problema. Per tornare a interpretare il
cambiamento, come era avvenuto nelle elezioni europee anche a Roma,
servono un bagno di umiltà e una scossa nel partito. Il Pd a Roma
deve rinascere, promuovendo energie nuove e non compromesse e
reimmergendosi in una metropoli mai così divisa, incattivita,
impaurita, segnata da diseguaglianze enormi.
Virginia
Raggi ha stravinto e sarà legittimamente lei a guidare Roma. La
logica del ballottaggio va accettata perché così funziona la
democrazia, ma ad eleggerla è stato poco più di un terzo degli
elettori. Segno che la maggioranza dei cittadini guarda con distacco
al Palazzo del Campidoglio, nel quale ora la sindaca entra
accompagnata dalle note di una marcia trionfale ma, finiti i
festeggiamenti, dovrà fare i conti con problemi enormi.
Le
confuse promesse della campagna elettorale dovranno ora misurarsi con
la realtà dei fatti: un peso del debito che strozza le risorse
disponibili, una macchina amministrativa mastodontica e incapace di
attuare gli indirizzi politici della giunta, le aziende pubbliche
prigioniere di patti scellerati con le corporazioni. Beppe Grillo
aveva tuonato prefigurando interventi radicali, tali da sollevare la
protesta degli interessi colpiti.
La
Raggi, in campagna elettorale, li ha invece rassicurati. E ne ha
tratto un grande vantaggio: sarà interessante vedere come farà a
conciliare queste due cose. E poi ci sarebbero da cogliere occasioni
di attrazione di investimenti, ma il nuovo sindaco ha detto no a
tutto. Al nuovo stadio della Roma, come alle Olimpiadi. Nessun
cittadino può tifare per il male della propria città, ma le prove
fornite dai pentastellati dove governano sono deludenti. A Roma
servirebbe una nuova classe dirigente non solo onesta, ma anche
competente.
La
Raggi potrebbe stupirci, ma temiamo che non sarà così. Se volesse
farlo potrebbe fare una cosa semplice e chiara: disdettare il
contratto sottoscritto con la ditta Casaleggio che affida a Grillo e
a un fantomatico staff le principali scelte sia riguardo agli
assessori che alle strategie di governo. Restiamo in fiduciosa
attesa.
di
Carmine Fotia per L' Unità.TV
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