Propaganda e reclutamenti, Albania crocevia dei jihadisti
LORENZO
VIDINO per LA STAMPA.IT
WASHINGTON
Il
network di moschee e imam radicalizzati preoccupa il nostro Paese. La
maggior parte dei combattenti europei passati da Pristina e Tirana
Sconosciuta
ai più, l’esplosione di fervori jihadisti tra le popolazioni di
lingua albanese suscita crescenti preoccupazioni tra le agenzie
anti-terrorismo europee, americane e mediorientali. Network jihadisti
albanesi capeggiati da carismatici imam reclutano tra le comunità
della diaspora albanese d’Europa, Italia inclusa. Il Kosovo ha il
numero più alto d’Europa di foreign fighters in Siria rapportato
alla popolazione. E jihadisti di etnia albanese ricoprono alte
cariche tra le milizie del califfo al Baghdadi,
LA
FINE DEL COMUNISMO
Nonostante
il Sud-Ovest dei Balcani sia da sempre terra di un islam moderato e
laico, il problema traccia le sue radici agli Anni 90. Con la fine
del comunismo - sotto il quale l’islam in Albania, unica nazione al
mondo dichiaratasi ufficialmente atea, era pressoché sparito - i
Balcani divennero terra di conquista del proselitismo di matrice
wahabita. Inizialmente arrivati per fornire aiuti umanitari durante i
sanguinosi conflitti dell’epoca, enti benefici e religiosi sauditi
(World Assembly of Muslim Youth), kuwaitiani (Revival of Islamic
Heritage Society) e di altri Paesi del Golfo crearono un network di
moschee, centri studi e ong il cui vero obiettivo era quello di
diffondere un’interpretazione ultra-letterale e militante
dell’islam alle popolazioni locali. Forti dei petrodollari
cominciarono a ottenere consensi tra i più giovani, afflitti da
disoccupazione e povertà, e spesso attratti sia dal forte messaggio
del wahabismo che dalle opportunità che queste organizzazioni
offrivano.
Una
nuova generazione di imam balcanici si è formata grazie a generose
borse di studio nelle scuole più fondamentaliste della penisola
araba. E, una volta ritornati in patria, hanno trovato nuove moschee
costruite con soldi del Golfo (100 costruite in appena 10 anni solo
nel piccolo Kosovo) dal cui pulpito diffondere il veleno jihadista.
Venti
anni dopo, la mobilitazione per la Siria mette in luce il prodotto di
queste dinamiche. I foreign fighters di etnia albanese, tutti
militanti con lo Stato Islamico o Jabhat al Nusra, sono circa 1000
(900 dal Kosovo per le forze Kfor della Nato, 150 dall’Albania e
una cinquantina dalla minoranza albanese in Macedonia). I loro
network sono sofisticati, spesso intrecciati a quelli della potente
criminalità organizzata locale. Sono cellule operanti a livello
locale, ben finanziate e armate, con forti legami familiari interni
che ne rendono difficile la penetrazione. Le forze dell’ordine
locali, spesso prive di mezzi e accusate di corruzione, fanno quello
che possono e l’Albania è molto più efficiente di Kosovo e
Macedonia.
Nonostante
questi problemi negli ultimi tempi alcune inchieste hanno alzato il
velo sui network jihadisti locali. Nel marzo 2014 le autorità di
Tirana hanno smantellato un sofisticato network dedito alla
propaganda e al reclutamento, guidato da due imam, Bujar Hysa e Genci
Balla. Tra i loro collaboratori, vari affiliati dello Stato Islamico
specializzati nel far passare aspiranti jihadisti dall’Europa alla
Siria.
I
LEGAMI CON L’ITALIA
E
alcuni di essi, incluso Hysa stesso, hanno forti legami con l’Italia.
La pista balcanica, infatti, arriva direttamente a casa nostra. Le
nostre unità anti-terrorismo monitorano gli ambienti fondamentalisti
balcanici, consapevoli della loro pericolosità operativa. Fino al
punto da temere che l’Albania diventi quello che il Belgio è per
la Francia: la retrovia logistica da dove pianificare attacchi.
Imam
radicali albanesi come Shefqet Krasniqi della grande moschea di
Pristina, ora sotto inchiesta in Kosovo, passano spesso nelle nostre
moschee per recitare i loro sermoni. E più indagini recenti hanno
dimostrato come i network albanesi presenti nel Centro-Nord siano tra
i più attivi nel reclutamento per la Siria, non solo tra i
connazionali ma fungendo anche da «agenzia di viaggio» per giovani
nordafricani e convertiti italiani che altrimenti non troverebbero
l’aggancio giusto per unirsi allo Stato Islamico.
Era
infatti albanese la pista che consentì ad Anas el Abboubi,
adolescente bresciano di origine marocchina, di lasciare l’Italia
dopo essere stato rilasciato dal tribunale del riesame e divenire uno
dei primi foreign fighters nostrani. L’inchiesta bresciana aveva
svelato una sofisticata rete basata in Albania, ma con propaggini in
Lazio e Piemonte. Figura centrale di quel network era Lavdrim
Muhaxheri, ex dipendente della Nato in Kosovo che si era unito allo
Stato Islamico e che assurse a star mediatica nella galassia
jihadista per video in cui appariva con teste mozzate di soldati
siriani. Ed era albanese anche il network che ha reclutato la
convertita parteno-brianzola Maria Giulia Sergio, che ora vive nel
Califfato insieme al marito, l’albanese Aldo Kobuzi.
L’Islam
«made in Albania» rimane un modello di tolleranza. Ma venti anni di
propaganda estremista hanno attratto una parte di musulmani
albanesi, siano essi nei Balcani o nelle varie diaspore, generando un
nuovo fronte di rischi per il nostro Paese.
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