Quei volenterosi spioni di Hitler
L’altra
faccia degli “italiani brava gente”: quasi la metà degli ebrei
rastrellati nel nostro Paese dovettero la loro sorte alla delazione,
al tradimento, agli inganni di vicini di casa, colleghi e conoscenti
L’occasione
del 27 gennaio, il Giorno della Memoria, viene molto spesso
utilizzata per ricordare non solo la tragedia degli ebrei d’Europa,
ma anche e soprattutto per riaffermare uno dei tanti luoghi comuni
così diffusi nell’opinione pubblica italiana, e cioè che dietro
ogni ebreo strappato alla deportazione e alla morte vi era una rete
di italiani non ebrei che misero in pericolo la propria vita per
porre al riparo le vittime. Puntualmente, ogni 27 gennaio le
televisioni ritrasmettono film e fiction che esaltano gli eroi
italiani, personaggi che sfidando ogni sorta di pericolo hanno
salvato decine, a volte centinaia di ebrei. Ogni 27 gennaio viene
quindi riaffermato e ribadito il mito degli «italiani brava gente»,
una delle leggende più radicate nella memoria collettiva del nostro
Paese. Eppure una analisi più approfondita dei fatti dimostra una
storia molto più complessa e molto meno consolatoria di quella
raccontata nei film.
Il
primo periodo della persecuzione, dal settembre 1943 al dicembre
successivo, fu caratterizzato dal tentativo di deportare gli ebrei
tramite un commando speciale, composto da reparti della polizia
tedesca agli ordini di uno «specialista», l’ufficiale delle SS
Theodor Dannecker, il quale agì nell’Italia centro-settentrionale,
razziando e deportando circa di 2000 ebrei. Nonostante l’impegno di
Dannecker, queste azioni non si dimostrarono sufficientemente
efficaci agli occhi dei nazisti. Nel frattempo però la Gestapo stava
organizzando una serie di comandi locali, i cosiddetti
Aussenkommandos, che avevano lo scopo di controllare l’ordine
pubblico nelle grandi città e di reprimere ogni tentativo di
resistere all’occupazione. Per quanto efficienti, i comandi della
polizia tedesca avevano troppo poco personale e furono quindi
costretti ad appoggiarsi agli italiani. Tra il 13 e il 30 novembre la
Rsi, inoltre, proclamò tutti gli ebrei «stranieri» e «nemici», e
ne ordinò l’immediata incarcerazione in campi di concentramento
costruiti ad hoc.
www.palazzomazzetti.it «Pentateuco 31», acrilico su legno realizzato nel 2006 da Emilio Isgrò. L’opera è esposta nella mostra collettiva «Ricordi futuri», curata da Ermanno Tedeschi e aperta fino al 29 maggio ad Asti, Palazzo Mazzetti. Filo conduttore l’idea della memoria e del ricordo che lega ogni uomo alle proprie origini e tradizioni, e rendendolo consapevole delle proprie esperienze passate lo mette in grado di affrontare quelle presenti e future. Info
UN LAVORO PAGATO BENE
Ma
non fu soltanto la politica ufficiale della Repubblica a essere di
aiuto. Anche la collaborazione spontanea di migliaia di «italiani
comuni», di normali cittadini, fu fondamentale per l’arresto di
migliaia di ebrei. I poliziotti tedeschi sfruttarono ampiamente i
collaboratori italiani: spie, delatori, infiltrati, che agivano nei
modi più diversi. Questo lavoro veniva pagato piuttosto bene, dato
che su ogni ebreo, in media, veniva messa una taglia di 5.000 lire
dell’epoca.
A
Roma, il comandante della polizia tedesca Herbert Kappler si affidò
a gruppi di collaborazionisti, le cosiddette bande, composte in
genere da ex informatori della polizia segreta fascista e da
criminali comuni, specializzate proprio nella caccia agli ebrei. Una
di queste bande, tra il 23 e il 24 marzo 1944, arrestò una dozzina
di ebrei che furono immediatamente fucilati nel massacro delle Fosse
Ardeatine. A Torino e a Milano, invece, i comandi tedeschi
sfruttarono informatori singoli, personaggi che conoscevano
personalmente moltissimi ebrei e ne sapevano i nascondigli. I loro
metodi di indagine erano spesso raffinati e particolarmente odiosi.
Un
collaborazionista di Torino, ad esempio, si recò a casa di un
rabbino fingendo di essere ebreo e di avere un parente in punto di
morte. In questo modo riuscì a convincere il rabbino a uscire dal
nascondiglio per andare a recitare le preghiere per il presunto
moribondo. A Roma un altro collaborazionista si recava nelle carceri
fingendosi un avvocato con agganci nel Tribunale tedesco, allo scopo
di ottenere informazioni sui parenti dei reclusi, che venivano
immediatamente girate alla polizia tedesca. A Genova un collaboratore
della Gestapo aveva escogitato un metodo ancora più lucroso. Dopo
aver arrestato un ebreo, fingeva di lasciarsi corrompere e faceva
fuggire la sua vittima, che riarrestava immediatamente. In questo
modo, il fascista riusciva a farsi pagare tre volte: due volte dai
tedeschi, e una volta dalla vittima.
LA
STORIA “Partecipò a 3.680 omicidi”, 70 anni dopo a processo per
Auschwitz
TORTURE
E SEVIZIE
Spesso,
inoltre, prima di consegnare le loro vittime ai tedeschi, i
collaborazionisti torturavano gli ebrei, allo scopo di ottenere altri
nomi, altri indirizzi e altre vittime. Così un collaborazionista di
Milano aveva messo su un piccolo «ufficio» in viale Albania, dove
seviziava le vittime appena arrestate. In via Tasso, nel comando di
Roma, interpreti e spie italiane si sostituivano ai tedeschi nel
ruolo di torturatori.
A
questi veri e propri professionisti, che avevano fatto della caccia
all’ebreo un lavoro, si devono aggiungere anche le migliaia di
cittadini che tradirono i vicini di casa, gli amici, i colleghi di
lavoro, non solo per scopo di lucro, ma per odio personale, per
vecchi rancori, oppure per motivi ideologici.
Non
si deve scordare, infine, il ruolo svolto dalle forze dell’ordine
della Repubblica, che ebbero un ruolo fondamentale negli arresti.
ROMA,
CASO EMBLEMATICO
In
sintesi forze dell’ordine, bande di collaborazionisti e singoli
cittadini rappresentavano un complesso di minacce per gli ebrei in
fuga. Roma rappresenta un caso emblematico per capire quanto
importante sia stato l’aiuto degli italiani nell’arresto e
deportazione degli ebrei e quali fossero i meccanismi della
persecuzione. Su circa 730 ebrei deportati da Roma dopo la retata del
16 ottobre, almeno 439 furono traditi o arrestati dagli italiani, un
numero enorme, tra i quali si contano i 136 ebrei arrestati e
deportati dalla Questura comandata dal fascista Pietro Caruso, i 200
arrestati dalle varie «bande» al servizio dei tedeschi, mentre i
restanti furono denunciati da singoli cittadini. In sintesi: nella
Capitale oltre la metà degli ebrei arrestati e deportati, hanno
dovuto il loro destino ad altri italiani.
Le
carte degli archivi storici italiani sono piene di queste storie:
storie di tradimenti, delazioni, deportazioni. Storie con i nomi di
italiani che scelsero di collaborare con i nazisti di loro spontanea
volontà, e che raccontano una vicenda molto diversa da quella troppo
spesso celebrata nelle commemorazioni ufficiali.
AMEDEO OSTI GUERRAZZI per La Stampa.it
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